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E a mam’se chiangeve PDF Stampa E-mail
L'ha scritt carlo "U Sinnache"   
mercoledì 26 gennaio 2011

 Una delle antifrasi che spesso accade di ascoltare a Taranto è sicuramente “E a mam’se chiangeve….” (e la madre piangeva... [si dispiaceva] ) seguita da una caratteristica (spesso fisica) diametralmente opposta a quella del soggetto dell’osservazione.

Così un prosperoso decolleté verrà salutato con un “E a mam’se chiangeve ca nò teneva menne!” così come una persona dalla fin troppo fluente eloquio verrebbe notata con un “E a mam’se chiangeve ca nò parlava maije”.

Il modo di dire fu oggetto di attenta analisi da parte dell’erudito saudita Addah Hauemmith (Rabat, 1935 – Ustioni riportate a causa della collisione con una medusa al largo di Castellaneta Marina, 1992) che per primo calcolò che le gobbe di un cammello possono mediamente contenere l’equivalente di due cartoni da 24x33cl di Raffo.

Nel suo libro di memorie, simpaticamente intitolato  “Cazzo che cozze! – Le meraviglie di fondali del golfo di Taranto” – Nicola ”Teofilatto” Luzzi Editore, l’Addah Hauemmith così notava:

“Vi è in Taranto l’uso di ironizzare in merito alle particolarità fisiche di qualcuno, fingendo di ricordare che la di lui madre si doleva sino alle lacrime dell’esatto contrario. La cosa è in sé particolare, perché da un lato contraddice la credenza (intesa come convinzione e non come mobile da cucina) che un novello Gregor Samsa potrebbe avere da parte della sua genitrice un trattamento migliore di quello riservato al protagonista del racconto kafkiano, poiché apparirebbe sempre e comunque alla propria madre un lampante esempio di apollinea bellezza (ovvero, che ogni scarafone je bell’a mamma soja, e l’eventuale lettore campano mi perdoni per questa vandalica scorreria del dialetto partenopeo).

In questo caso invece la madre nota il “difetto” del figlio/a e se ne dispiace versando amare lacrime e il detto assume una natura simile al “troppa grazia Sant’Antonio”, come se la contrizione di una madre avesse ottenuto una così forte intercessione divina tale da trasformare un tratto somatico o caratteriale in un altro speculare all’originario.

L’espressione è l’ennesima prova della natura diplomaticamente bizantina del tarantino, che non commenta quasi mai direttamente un episodio ma affida ad eufemismi e giochi di parole il compito di esplicitare il suo punto di vista.”

 
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