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TU TE STÈ, IJE ME STOCHE, NINT’ ME DÈ E NINT’ TE DOCHE PDF Stampa E-mail
L'ha scritt Carlo "U Sinnache"   
lunedì 21 gennaio 2013

 Ero nella sala bricolage ubicata nell’ala nord-nord-ovest della mia modesta magione e stavo procedendo all’assemblaggio di un vibrovaglio circolare adatto alla setacciatura oscillatoria di tipo tridimensionale necessaria per selezionare i sassi di dimensione opportuna alla realizzazione del mio bonseki, quando mi resi conto che non avevo sottomano un cacciavite adatto a stringere le viti delle fascette di fissaggio dei tubi flessibili del circuito idropneumatico di comando dell’apparecchio.

Non volendo abbandonare la sala, e volendo far sfoggio della mia padronanza della lingua inglese, mi risolsi a chiamare Archibald, l’immarcescibile maggiordomo che mi ausilia in ogni mio comodo, utilizzando la lingua della perfida Albione: “Archiba’ – esclamai stentoreo – please bring me a screwdriver, please!”. Dopo pochi secondi un felpato scalpiccio preannunciò l’arrivo del longilineo butler, che però – con mia sorpresa e disappunto – recava seco non già l’attrezzo richiestogli, bensì un bicchiere tipo highball contenente un long drink a base di vodka e succo d'arancia.

Il disappunto di non poter disporre dell’attrezzo che mi necessitava non era inferiore all’essere stato paragonato al trafficante di armi Ordell Robbie, impersonato da Samuel L. Jackson nel film “Jackie Brown” di Quentin Tarantino.

Risoltomi a fare di necessità virtù, sorseggiai lo “screwdriver” perfettamente mescolato e notai che Archibald si manteneva a notevole distanza, situazione che mi impediva di poggiare il tumbler oramai vuoto sul vassoio che sosteneva con la mano guantata. “E cè facime – esclamai un po’ stizzito, passando dal dialetto di Oxford a quello del Borgo – tu te stè, ije me stoche, nint’ me dè e nint’ te doche!” ("Cosa facciamo. Tu stai [fermo] io sto [fermo], niente mi dai e niente ti do"). Archibald sbarrò gli occhi senza peraltro profferire verbo, dimostrando comunque con una inequivocabile mimica facciale che gli sfuggiva il senso ultimo del mio distico in doppia rima baciata.

Lasciai così in sospeso il montaggio del vibrovaglio e raggiunsi la biblioteca ubicata a qualche decina di stanze di distanza lungo il corridoio, seguito dal pallido Archie che già sapeva di avere l’ennesima occasione di abbeverarsi alla fonte nella sapienza che nutrì i figli di Falanto. Giunto nella sala di lettura, senza esitazioni posi sul lungo fratino in noce antico una copia “in folio” del prezioso trattato “AIA, che dolore! Ripercussioni psicosomatiche della legislazione ambientale di terra jonica sui responsabili della comunicazione aziendale”, redatta con certosina pazienza dal semiologo italo-malese Jerome Harkinà Cihavè (Kuantan, 1823 – Prolasso a causa del tentativo di ovalizzare un tubo di acciaio da 3” con la sola forza dello ileo-psoas, 1899), noto ai più per la ostinata campagna di propaganda tendente ad ottenere dal Capo Supremo dello Stato Almu'tasimu Billahi Muhibbudin Tuanku Alhaj Abdul Halim Mu'adzam Shah ibni Almarhum Sultan Badlishah di rinuciare al pomposo titolo di “Sultano” in favore di un più democratico “Mèstr’”.

Lo Harkinà Cihavè, nel tomo citato, sostiene che – sia pure nelle rispettive autonomie operative – i rapporti tra diversi poteri o strutture decisionali, legislative, giuridiche o formative che siano, non possono prescindere da un reciproco scambio di beni e/o servizi. In una sorta di “do ut des” non statuito ufficialmente, ma non per questo meno radicato nella quotidiana azione dei singoli, ciò che orienta una decisione o un atto verso una specifica conclusione non è la individuazione di un ipotetico e fumoso “interesse pubblico” quanto un tangibilmente dimostrato “utile privato”.

Non vi è chi non veda – sostiene ancora lo Harkinà Cihavè – in questo principio un motore efficace ed efficiente dell’azione sociale, poiché la stessa, sfuggendo ai lacci e laccioli delle infinite obiezioni capziose e velleitarie di personaggi che pretendono di essere liberi e pensanti, si orienta infine con necessaria determinazione verso l’esito sperato da chi, con apprezzabile e lungimirante contributo, lo indica discretamente in contanti e busta anonima.

Lo Harkinà Cihavè cita quindi il motto in esame, evidenziando come l’incontro di interessi avvenga per reciproco convincimento di entrambi gli attori, diversamente rimanendo ciascuno fermo sulle sue posizioni. Il detto si presta quindi tanto a sollecitare la controparte neghittosa ad ottemperare alla dazione richiestagli, quanto ad incalzare il fornitore di servizi che – intascato l’acconto – solleciti il saldo prima di completare l’opera commissionategli. Il motto si presta altresì, con chiaro valore icastico, a pungolare chi pigramente propenda per lo “armatevi e partite”, rendendogli noto che non si può all’infinito avere senza dare e che – negli affari e nell’amicizia guadagno e convenienza devono essere reciproci, come peraltro statuito dall’altrettanto noto detto: “Damm’e do e l’amicizia durò”.

Ultimo aggiornamento ( lunedì 21 gennaio 2013 )
 
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