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VENDRA CHIENA NO’ CRED’A DIGIUNE PDF Stampa E-mail
L'ha scritt Piergiorgio   
martedì 09 novembre 2004

Nella tiepida aria di una sera autunnale in cui sembrava quasi di poter credere che questo è il migliore dei mondi possibili avevo appena mandato in solluchero i miei sensi grazie ad una sopraffina cena preparata con amore e perizia dalla dolce sindachessa, che mi aveva servito in rapida successione...

...pasticcio con asparagi al forno, bucatini alla "mamma Rosa", riso alla cantonese, insalata ebraica di pollo con falafel assortiti, cous-sous con verdure, tacchinella alla "jujijo", gazpacho e caponata.

Dopo questo etnico tourbillon gastronomico ci eravamo romanticamente accomodati sulla veranda ad ammirare la luminosità delle stelle, in attesa che Archibald ci servisse, quale degna chiusura di cotanto desinare, due bicchierini dell'elisir digestivo al lauro preparato dai monaci camaldolesi di una antica abbazia dell'Umbria. Ad offuscare la paradisiaca atmosfera il solerte maggiordomo ritenne di recarmi il mio telefono cellulare, che trillando con insistenza tentava ostinato di richiamare la mia attenzione; attivai pigramente la comunicazione, stendendomi al fianco della sindachessa su uno dei triclini che arredavano la veranda e deponendo il telefono su un tavolino adiacente dopo avere abilitato la conversazione in viva voce.

Dall'altro capo della cella di trasmissione c'era un mio conoscente che, dopo i convenevoli di rito, mi rimpoverò in maniera chiara e diretta per un consiglio gastronomico fornitogli qualche giorno prima. Lo avevo infatti indirizzato presso la osteria "Zoccolantica" di Martina Franca, locale che io avevo alquanto gradito e che invece aveva profondamente deluso il mio interlocutore. Provai ad abbozzare una difesa d'ufficio del ristoratore ma venni subito zittito dal mio risentito corrispondente con un perentorio "Essì, vendra chiena no' crede a diggiune!" (Eh si, [chi ha la] pancia piena non crede al digiuno [altrui]) frase a cui seguì l'inequivocabile segnale di fine conversazione.

Stavolta non solo Archibald, ma anche la sindachessa mi chiesero lumi sul motto che aveva segnato la fine del colloquio e così, per soddisfare i loro appetiti intellettuali, abbandonai l'accogliente giaciglio e mi recai nella solita, affidabile biblioteca.

Dopo una rapida ricerca rintracciai il panphlet "Nunc est bibendum! - Ce ne vole u Primitive de Manduria du Chateau Latour Cabernet Sauvignon", scritto con singolare verve polemica dal gastronomo e sommelier pakistano Akap Hanghan (Lahore, 1911 – soffocato da un grumo di notevoli dimensioni presente in una portata di "fave e fogghjie" servitagli presso il ristorante "Mister Mimino" in viale Virgilio, 1979) in difesa della bontà e della piacevolezza dei vini autoctoni del tarantino rispetto a prodotti d'oltralpe, a torto ritenuti migliori.

Nel libello in esame, l'Hanghan dedica un intero capitolo alla descrizione delle modalità di raccolta dell'uva e di preparazione del mosto prima e del vino poi, con una lirica ed una poesia affatto singolari: le descrizioni delle terre della plaga jonica che vanno da Avetrana a San Giorgio, da Martina a Maruggio, calcinate da un sole spietato e cullate da un pigro scirocco; il racconto dell'ostinato vitigno che spunta tra terre rosse e grasse così come da argille bianche e secche; la cronaca della diuturna fatica del contadino che, tutt'uno con la pianta, la nutre intridendo il terreno col suo sudore in una simbiosi che vede l'uomo e il vitigno affidare l'un l'altro la propria sopravvivenza; il diario che raccoglie le speranze della raccolta, la fatica della spremitura, l'attesa della fermentazione, la gioia del primo assaggio e tante e tante altre pagine che confessano senza pudori l'amore dell'autore per il sanguigno elisir di Bacco.

Un vino così corposo e carico, denso di profumi e sapori, figlio della passione e della fatica, padre della gioia e della festa, fraterno al primo bicchiere e traditore dopo il terzo, buono da solo e ottimo in compagnia di qualunque piatto non può essere apprezzato, dice l'Hanghan, da sommelier stitici e striminziti, da presunti esperti che suggono solo poche gocce come timidi colibrì invece di abbandonarsi a lunghi sorsi di cotanto nettare, da cerebrali studiosi che piuttosto che farsi travolgere dalle spire sensuali sprigionate dall'onda vermiglia che si agita nel bicchiere concionano di sentori, retrogusti, tannini e persistenze. "Vendra chiena no' crede a diggiune!" conclude l'Hanghan, come a richiamare un evangelico "perdona loro perché non sanno quel che fanno"; non vi è colpa nel non potere, non vi è dolo quando non manca la volontà ma la capacità, costoro, dice lo studioso, son più da compatire che da condannare.

Ecco quindi illustrata l'ampia casistica del detto in esame, che ben si attaglia a tutte quelle situazioni in cui si voglia evidenziare la evidente impossibilità materiale di un soggetto a prendere atto di una situazione contingente agli antipodi di quella in cui vive: così molti occidentali, sazi e satolli con le migliaia di calorie alimentari ingollate a pranzo e a cena, stentano a credere che a poche centinaia di chilometri di distanza dalle loro opulente tavole ci siano milioni di persone che soffrono la fame; virili gentiluomini che si producono quotidianamente in copule plurime non comprendono che bisogno ci sia del "Viagra", paffuti cittadini al sicuro nelle loro democrazie conquistate con sangue e il sacrificio dei loro padri bollano come esagerazioni le denunce delle violazioni dei diritti umani evidenziate da organizzazioni non governative; tranquilli residenti in sopiti paesi in cui il tempo scorre sornione scuotono perplessi la testa osservando al telegiornale le migliaia di persone incolonnate in lunghi serpenti di auto in coda sulla tangenziale di Bologna o al casello della Milano-laghi in occasione delle ferie di agosto o del ponte della Immacolata; muliebri e prosperose bellezze dall'opimo seno che si affaccia arrogante da maliziosi decolletè non si spiegano perché mai qualcuna, dal petto più simile alle pianure della Capitanata piuttosto che ai contrafforti della Murgia, si sottoponga a sacrifici fisici ed economici per arricchire di una o due taglie la misera dotazione fornita da una avara Madre Natura.

Ultimo aggiornamento ( giovedì 25 novembre 2004 )
 
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