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NO’ DOCE CA TE SUCANE,.. PDF Stampa E-mail
mercoledì 09 febbraio 2005

Ero nella modesta aula multimediale ospitata nell’ala sud-sud-ovest della mia umile magione, impegnato a condurre un master di specializzazione avente per tema “Customer Relationship Management ovvero: No’ pe’ sapè le fatte tue ma pe’ regulà le mije –

le modalità di approccio e gestione della intervista telefonica per la caratterizzazione delle strategie di marketing” rivolto agli studenti della Facoltà di Economia della Università del Tarantoshire, quando fece il suo ingresso lo stringato Archibald, che su un carrello recava un petit dèjeuner di latte, caffè, tè, croissant, pane, burro e marmellata per il rifocillamento degli studenti, avidi di sapere ma anche di gastronomia.

Il caso volle che il longilineo maggiordomo varcasse la soglia proprio nel momento in cui citavo ai discenti il fondamentale concetto di equidistanza caratteriale espresso con la frase: No’ doce ca te sucane e no’ amare ca te sputane” (non [troppo] dolce altrimenti ti succhiano e non [troppo] amaro altrimenti ti sputano). Mentre le nuove leve della finanza locale soddisfavano le loro esigenze gastroduodenali, il muto chiedere di Archie, come sempre refrattario alle finezze lessicali rossoblù, valse a convincermi che la frase, che io consideravo autoesplicativa, meritasse un più approfondito esame.

Così, mentre gli allievi trangugiavano senza requie, al pari di novelli Ugolino, le leccornie per loro approntate, mi recai in biblioteca per rintracciare il fondamentale saggio “Come trattare gli altri e farseli a sasizza” di Dale Kayidd Hasthàt (Tucson, 1912 – Assideramento nelle acque della laguna Jokulsarlon durante il tentativo di porre al fresco la sua riserva di Raffo tra i ghiacci islandesi del Breidamerkurjokull, 1989) conferenziere e tutor di madre americana e padre arabo che tra i primi studiò scientificamente i principi e le teorie della Programmazione Neuro Linguistica e delle modalità di interazione tra individui nesso scambio delle figurine dei calciatori.

Con il prezioso tomo ritornai in aula, dove degli squisiti manicaretti non era rimasta neppure la parvenza del profumo, e senza por tempo in mezzo ripresi la lezione citando quanto riportato dal Kayidd Hasthat nella sua opera. Proprio per esemplificare il concetto che volevo veicolare, il saggista riporta la frase da me citata, colta al volo mentre faceva la spesa al mercato settimanale dei Tamburi durante una sua permanenza tarantina, e rivolta da un mercante ambulante ad un suo giovane garzone avventizio come monito sul come rapportarsi con le matrone ioniche durante le trattative che precedono un acquisto.

Il Kayidd Hasthat, sulla base delle spiegazioni chieste ed ottenute dall’esperto commerciante, comprese ed approfondì il concetto da questo esposto con il motto citato. In questo si invita il destinatario a non essere né troppo arrendevole (dolce) nei confronti della controparte, poiché altrimenti questa potrebbe approfittarne per trarre a sè tutti i vantaggi, né al contempo essere troppo rigido e scostante (amaro), per non causare una chiusura prematura del rapporto commerciale con un nulla di fatto. Si nota come l’immagine retorica rimandi con alata poesia al famoso e mai troppo rimpianto “zippere dòce”, la radice della liquerizia oggi, ahimè, soppiantata anche sulle bancarelle tradizionali, da anonime stringhe corvine di industriale fattura che neppure lontanamente riescono a restituire il senso del tantalico scontro tra l’Uomo e la Natura che riviveva ad ogni morso. Chi abbia almeno una decina di lustri di esperienza ben ricorderà quale opera di pazienza e determinazione fosse il gustare il rugoso rametto, quale impegno fosse richiesto a molari ed incisivi per frangerne le fibre e suggerne il recondito gusto, quale vantaggio igienico se ne avesse per la pulizia degli interstizi dentali, quale sollucchero papillare fosse il carpirne il dolce umore e quale trista sorpresa fosse, al contrario, imbattersi nel sempre possibile amaro sapore.

Cosi, il virgulto particolarmente dolce veniva sminuzzato e gustato dall’avido fanciullo senza requie alcuna, con un indefesso lavorio di mascelle pari a quello dell’aquila che suppliziava il fegato di Prometeo mentre, al contrario, il ramo amaro veniva repente sputato lontano ed abbandonato per sempre. E’ di singolare interesse notare come, ancora una volta, la filosofia comportamentale del popolo tarantino venga espressa per negazione e non per affermazione, non viene cioè detto come si debba essere ma, viceversa, come NON si debba essere. L’afflato epistemologico di un tale concetto, rispetto alla cultura occidentale normalmente agita è di portata epocale; basti pensare al passo del Vangelo di Matteo, dove Gesù il Cristo consiglia agli apostoli, in procinto di partire per la predicazione della Buona Novella, di essere “prudenti come serpenti e semplici come colombe” (Mt 10, 16) per constatare come in Occidente oggi domini una mentalità che impone e indirizza piuttosto che affidare al libero arbitrio di ciascuno la responsabilità delle scelte da fare, al pari di quanto avviene a Taranto come in Oriente, dove non si traccia la strada ma piuttosto i limiti da non superare per non perdere la Via. In questo non possiamo non riconoscere l’influsso plurisecolare delle popolazioni arabe che, in riva allo Ionio, portarono sì lutti e distruzione, ma anche conoscenza e cultura. Il tarantino così ritrova in sé e riassume millenni di atavica saggezza: la maieutica socratica, dove l’interlocutore giunge alla Verità grazie al processo deduttivo innescato in lui dalle domande che gli vengono poste e che esprimono dubbi e non certezze; la teologia di Agostino da Ippona, Padre della Chiesa originario della attuale Algeria che, dall’iniziale manicheismo e sulla scia dell’idealismo platonico, affermò che la Verità si può scoprire solo nella propria interiorità attraverso l’illuminazione; la Cabala degli Ebrei che esprime in En Soft il senza fine, colui che è indeterminato e indistinguibile, di cui è possibile parlare solamente in termini negativi, dicendo ciò che non è, per non correre il rischio di dualizzare, di limitare ciò che è illimitabile in numero e potenza.

Dal Socrate del “So di non sapere” e “Conosci te stesso” (affermazioni solo apparentemente contraddittorie) a Platone, dal Mani iranico al JHWH ebreo, dall’Uno primigenio al Dio potente e misericordioso, fiumi di conoscenza secolare che come in un percorso carsico hanno scorso migliaia di anni e di chilometri per sgorgare oggi in riva allo Ionio.

Ecco quindi che, in diversi ambiti della vita quotidiana, il tarantino non affermerà mai “Ije facisse accussì”, ma piuttosto “No’ jè accussì ca se face!”, lasciando il destinatario della osservazione in balia dei propri dubbi e delle proprie incertezze, metodo apparentemente crudele ma unico per giungere ad una Illuminazione che, una volta individualmente conquistata, sarà sua per sempre. Ecco spiegata la apparente ignavia tarantina, il falso immobilismo, la ingannevole apatia; ecco spiegato perché nessuno a Taranto ha acquistato prima di Emilio Riva le quote dell’ILVA, salvo poi lamentarsene dopo; ecco chiarito perché l’asta fallimentale per la vendita del Taranto calcio è andata deserta e poi, dopo l’assegnazione del titolo sportivo all’unico imprenditore che si è presentato, si è assistito ad una ininterrotta sequela di consiglieri e beneinformati; ecco perché nessun tarantino, degno di tale nome e di tali origini e attento cultore delle tradizionali abitudini, darà mai un giudizio preventivo e categorico riservandosi, viceversa, la libertà e il gusto di concionare liberamente su quanto fatto.

 

Ultimo aggiornamento ( venerdì 25 febbraio 2005 )
 
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