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Fessa so’, ma a sera a casa m’arretire PDF Stampa E-mail
L'ha scritt usinnache   
venerdì 17 novembre 2006
Complice il tepore postprandiale di una domenica autunnale gratificata dalla “estate di San Martino”, ero accomodato su una chaise-longue piazzata nel patio dell’ala sud-sud-est della mia modesta magione, ove godevo del riposo del giusto e componevo un salace strambotto ispirato alle dissestevoli vicende del comune capoluogo. A dir la verità, il componimento era più sperato che effettivo, a causa della ritrosia della mia penna stilografica a lasciare qualsivoglia traccia di inchiostro di china sulla pergamena tramite la quale intendevo eternare i miei otto endecasillabi a rima alternata.

Notandomi alle prese con boccette di inchiostro, pompette di suzione e pennini intasati ed immaginando che fossi più aduso all’impiego di moderni videoterminali piuttosto che di tradizionali strumenti di scrittura, il mellifluo Archibald - britannico maggiordomo bianco per anni e costante ripulsa all’esposizione ai raggi solari – mi si fece dappresso offrendomi con gesto discreto il suo aiuto, memore della sua esperienza maturata negli anni che lo videro studente nei tradizionali college circondati dalla brughiera inglese.

Leggermente risentito dall’inconveniente e con l’orgoglio pungolato dal non riuscire a compiere con speditezza un atto all’apparenza così semplice, risposi al mio famiglio con un secco: “No’ te scè ‘ncaricanne Arcibà, ca fessa so’ ma a sera a casa m’arretire” (Non preoccuparti Archibald, che pur essendo stupido la sera riesco comunque a ritrovare la via di casa). Inutile aggiungere che la mia affermazione sconcertò non poco il mio flemmatico collaboratore, a cui sfuggivano il riferimento al mio scarso quoziente intellettivo tanto quanto l’affermazione che riuscissi a tornare in una casa in cui già ero.

Come già altre volte in passato, assunsi a me l’onore e l’onere di illuminare il vecchio Archie sul significato del motto da me citato e, volendo unire l’utile al dilettevole e recuperare una più semplice ma efficiente penna biro ed un volume utile alla ispirazione delle rime che intendevo comporre, gli chiesi di seguirmi nel mio studio privato.

Giunto nel sancta sanctorum che accoglieva le mie quotidiane elucubrazioni da qualche maligno scambiate per volgari penniche pomeridiane, dopo qualche minuto di attenta ricerca trovai la mia fedele “BIC Cristal” ed il saggio di Buddhismo esoterico “La Via senza ritorno, il ritorno senza la Via – riflessioni morali sul dissesto economico di un capoluogo di provincia dell’Italia meridionale”, redatto con incomparabile acutezza di pensiero dall’epistemologo giapponese Mymanjay Nhorosaiwa (Sapporo, 1843 – Seppuku davanti al municipio di Taranto per protestare contro il mancato funzionamento delle fontane a mare lungo la “ringhiera” della Città Vecchia, 1926), già autore della raccolta di meditazioni filosofiche “Se lo inzuppi da tosto s’ammoscia, se lo inzuppi da moscio s‘intosta – la natura del biscotto come estrinsecazione dell’eterna mutevolezza del creato”.

Il Maestro Mymanjay Nhorosaiwa, nel saggio citato tratta – sotto il velame di una banale vicenda di poco attenta amministrazione della res publica - di alcune delle più pregnanti questioni che da sempre assillano l’animo umano in ogni tempo ed in ogni luogo (Chi siamo? Dove andiamo? Da dove veniamo? Il Taranto deve giocare con una o due punte?) affrontandole con piglio deciso ed acuto animo indagatore. Pur rifuggendo dal rischio di una facile anagogia, Mymanjay Nhorosaiwa non si esime dal riportare quanta parte abbia avuto il lato spirituale e mistico nell’evento del crac economico descritto: alcuni cittadini che invocano la protezione di santi e beati, altri che evocano i defunti dei principali responsabili, altri ancora che augurano ai personaggi coinvolti di esplorare al più presto il mondo dell’aldilà per averne contezza diretta. In questa cornice affatto mondana si inserisce così la visione tipicamente ontologica del Maestro Mymanjay Nhorosaiwa ed il suo affermare la imprescindibilità di alcune caratteristiche dell’Uomo in quanto tale; lo studioso nipponico cita a questo proposito il detto da me pronunciato dandone poi una interpretazione tipicamente buddhista: non esiste uomo tanto ottenebrato nelle sue capacità e volontà da non riuscire, al termine della sua Via, a giungere alla meta che lo attende. Un giubilo di speranza che afferma senza dubbio alcuno che la salvezza e la serenità dell’anima è destinata quindi a tutti – perfino alle esauste casse del Comune di Taranto - sia pure dopo in innumerevole ciclo di rinascite e dolorose esistenze. Questa esegesi apre uno squarcio di dimensioni epocali sull’aspetto della spiritualità popolare a dir poco snobbato dagli studiosi precedenti (ed anche da molti successivi...) a Mymanjay Nhorosaiwa, che nel motto in esame coglievano solamente l’aspetto puramente materiale di un uomo che, pur abbruttito dalla Sorte, pur vilipeso dal Fato, pur limitato nell’intelletto, pur ottenebrato dalla Raffo, pure riesce a compiere un gesto tanto banale quanto fondamentale quale è il raggiungere il proprio domicilio, al pari della cavallina storna di pascoliana memoria. E così, dopo l’illuminante esposizione del Maestro Mymanjay Nhorosaiwa solo un ignorante per dolo o per colpa potrà pensare che il detto sia impiegabile esclusivamente per rivendicare una propria capacità intellettiva, sia pure limitata ad assicurare la sola esecuzione di operazioni elementari quali – appunto – il ritrovare la strada di casa tante volte percorsa.

 
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