Pizza a chi non dice pizza |
lunedì 18 luglio 2005 | |
Una possibile sintesi di analisi semantica(Liberamente ispirato a “Tre civette sul comò” di Umbro Eco da “Il secondo diario minimo”)Ogni popolo ha come dotazione quasi genetica del proprio intimo culturale un modo di dire, una frase, un motto intorno a cui si stringono a coorte i suoi componenti, tal quali fedeli soldati intorno alla bandiera del loro reggimento minacciata da preponderanti orde nemiche. A Taranto si può affermare, senza grande tema di smentite, che tale vessillo è costituito dalla cinquina poetica: pizza a cì nò dice pizza cu a mane sobbra a pizza a cui tanti e tanti esegeti e dossografi hanno dedicato anni di studio e fiumi di inchiostro. Pur senza volerci minimamente paragonare a cotanti ingegni, non riteniamo inutile o vanaglorioso il tentativo di sintetizzare in poche righe, ad ausilio dei nostri fedeli lettori, le conclusioni e le opinioni degli illustri studiosi che a sì nota composizione hanno fornito luce e fama. Invero assai frequente è il constatare che ciò che a prima vista appare chiaro e lampante è, a una più approfondita analisi, circonvoluto e misterioso; tale è il caso di questo triplo distico, che cela, ancorchè rivelare, molta della sua natura. I primi dubbi si hanno intorno alla sua datazione; se il Tregghia[1] vuole il ritornello risalente alla terza metà del XVII secolo, senza peraltro fornire elementi a sostegno della sua ipotesi, la paleontoglottologa Amalia Vattromori, detta “La Livornese” ne fissa una datazione non plus ultra[2] affermando che quantomeno il testo deve considerarsi coevo al prodotto da forno in esso citato, datandolo quindi con una età non superiore a tremila anni. A questa rigida (è il caso di dirlo) attribuzione si oppose con veemenza il semiologo Jean Luc Sphilatine, che giunse a Taranto al seguito del generale e scrittore Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos e quivi si spese in lunghi ed approfonditi studi intorno alla reale significanza delle rime di cui trattasi. Lo Sphilatine, conscio della neppure troppo nascosta malizia dei tarantini, ipotizzo che la “pizza” richiamata più volte nel testo non fosse la nota focaccia farcita e cotta al forno bensì che con questo termine si volesse alludere al membro virile[3]. A riprova di questo assunto, lo studioso riportava il testo di una filastrocca molto simile, proveniente dalla Normandia, che così recita: pènis à qui il ne dit pas pènis avec la main sur le pènis e dove non vi è chi non noti che i nostri cugini d’oltralpe, evidentemente meno bigotti ed oppressi da una rigida morale catto-oscurantista, citavano esplicitamente il membro virile invece di lasciarlo solo intuire da una velata allusione. A sostegno della sua tesi, lo Sphilatine, oltre che la comunque non trascurabile somiglianza delle strofe seconda e quarta, fornisce una approfondita analisi effettuata parallelando modalità di preparazione e consumo della pizza con quelle dell’organo sessuale maschile. Rifacendosi anche allo studio dell’erudito medievale Fra’ Favone da Todi[4], che fu predicatore errante nei territori della Garfagnana ammonendo sulla inopportunità per le massaie di usare il matterello e di maneggiare ortaggi quali carote o zucchine in cui poteva annidarsi lo spirito tentatore del Nemico par excellence, lo Sphilatine evidenzia che sia la focaccia che la Verga di Aronne hanno, in fase preparatoria una consistenza flaccida e floscia, raggiungendo entrambe un soddisfacente turgore una volta introdotte in una cavità calda ed accogliente[5]. Inoltre, sia il pane che il pene sono per alcuni beni di prima necessità, tanto da costituire la loro privazione, una evidente ed acclarata violazione dei diritti fondamentali dell’Uomo[6]. Avverso tale interpretazione psicologico-sessuale ante litteram, si schierò invece il nobile erudito spagnolo, conte Oliver Juan Carlos Traulo y Gruenco che in una sua opera teatrale[7] fa ripetere con ritmo ossessivo-compulsivo ad un suo personaggio una filastrocca che recita: hogaza a quién no dice hogaza con la mano sobre la hogaza riprendendo con ciò l’interpretazione che vuole la tre volte citata “pizza” come il noto prodotto assurto alla gloria dei fornai italiani in genere e del Regno delle Due Sicilie in particolare. Nel suo libro di memorie il Traulo y Gruenco spiega che l’ispirazione per i sopraccitati versi gli venne leggendo un prezioso incunabolo in lingua araba, risalente ai tempi della Reconquista ispanica, in cui l’autore, tale Abdul Yussuff Mòthamett, esalta la virilità e nel contempo la sensibilità emotiva del popolo moresco con i famosi versi: Ma come fanno i cammellieri /a far l’amore tra di loro / e a rimanere veri uomini però/ Ma dove vanno i cammellieri/ mascalzoni imprudenti/ con la pizza, due calzoni/ e i panzerotti in mezzo ai denti. Ma quella interpretazione che al Traulo y Gruenco sembrava oltremodo evidente, non convince la sociologa brasiliana Vanessa del Rio, che nelle ultime due strofe dell’opera del Mòthamett, non legge il menù di una pizzeria da asporto, ma bensì gli strumenti e l’atto buccogenitale di un rapporto omosessuale. La nota (ed esperta) professionista infatti, traduce le strofe come: con la pizza nei calzoni/ e i soffocotti in mezzo ai denti, versione che poco o punto dubbio lascerebbe sulla significanza del lemma “pizza” A tale interpretazione contribuì l’apporto fornito dal filosofo tedesco Otto Menekiaw che in un suo saggio[8] di analisi costruttivista in cui analizza gli stimoli che portarono alla affermazione del dadaismo e dell’Art brut ricorda il wortspiel con cui i giovanotti della bassa Sassonia invitavano le fraulein a toccare con mano la propria dotazione virile, ovvero: Wurstel , zu derjenige es nicht sagt, Wurstel mit der Hand auf sie Wurstel Come si nota, il termine “pizza” è qui sostituito da wurstel, il noto salsicciotto che è fin troppo facile, anche per il malizioso impiego a cui veniva destinata la filastrocca, individuare come un simbolo fallico, come peraltro dimostrato in diversi e qualificati studi.[9] A riportare l’attenzione sulla ipotesi che però col termine “pizza” si intendesse l’omonima pietanza contribuì il ritrovamento, effettuato dal filologo scozzese Patrick Petrapitz presso la scuola elementare “25Th of July” di Stratford on Avon, di una poesia autografa dell’allora fanciullo William Shakespeare[10] che, nell’imminenza della festa del calendimaggio, descriveva l’attesa della gustosa pietanza che la genitrice si accingeva ad infornare con questi versi: Pizza pie to whom doesn't say pizza pie with the hand above pizza pie con un gusto per il calembour che ritroveremo poi in opere sue più celebri, come “Sogno di una notte minz’a strate” o “All this ruet’ for nint’”. La notevole messe di contributi, solo superficialmente richiamati nei precedenti paragrafi, aveva fatto si che la comunità scientifica fosse divisa sia sulla datazione che sulla origine del detto, non essendovi incontrovertibili prove che ne fissassero una origine autoctona o, viceversa, una ispirazione schiettamente ionica. Ma come in un gioco di rimpiattino, degno di un film di Indiana Gions più che di polverose biblioteche, a far pendere di nuovo la bilancia verso la versione “sessuale” giunse la scoperta di una iscrizione rupestre ritrovata dal Dott. Prof. Marcello Filonide[11] durante i lavori di restauro del pù grande ipogeo della città antica di Taranto che, sviluppandosi per circa 600 mq su tre livelli si approfonda sino a 12 mt sotto il livello stradale, arrivando sino a livello del mare tramite un tunnel. La struttura dell’ipogeo, scavata nella calcarenite risalente a 65 milioni di anni fa e incrostata da fossili di frutti di mare è oggi sovrastata dal palazzo nobiliare De Beaumont Bonelli e riporta su una parete, graffito probabilmente con lo scalpello da un minatore particolarmente facondo, il motto di cui trattasi in lingua latina, ovvero: mentula, qui non dicit mentula cum manum super mentulam. L’eccezionale ritrovamento, ultimo in ordine di rinvenimento ma assai probabilmente tra i primi nella ideazione, sembrerebbe consentire con ragionevole sicurezza che il detto era già conosciuto ed impiegato fin dal periodo della dominazione della gens latina. L’argomento sembrava in effetti fornire un punto fermo alla vexata quaestio, che purtuttavia continuò ad animare i confronti dei vari studiosi che se ne occuparono, incapaci di giungere ad una conclusione soddisfacente e accettabile per tutti.[12] Le allitterazioni del primo, terzo e quinto verso costituivano il principale travaglio della critica esegetica che, oltre a confrontarsi sulla datazione confliggeva, come abbiamo visto, anche nella precisa interpretazione da attribuire al lemma “pizza” e, di conseguenza, alle occasioni in cui i detti versi trovavano occasione di essere recitati. A fornire una risposta a questa ultima domanda può contribuire l’analisi della struttura strofica e metrica del carme: si tratta, come è evidente a prima vista, di un sonetto A-B-A-C-A, in cui il primo, terzo e quinto verso sono costituiti da una unica parola, che fornisce nerbo e significanza al tutto. I versi pari, quinari dattilici, non hanno nessuna relazione di rima tra loro e hanno evidentemente lo scopo si introdurre e supportare la “pizza” di cui trattasi. Partendo da questo ultimo assunto, Chomsky & Van Damme[13] stigmatizzano aspramente le circonvoluzioni teoriche a cui si erano abbandonati alcuni analisti[14] e ipotizzano che le parole citate nei versi abbiano valenza puramente ritmica e siano quindi state scelte solo per il loro “suono”. Secondo i due chiarissimi studiosi il carme sarebbe quindi una via di mezzo tra una poesia futurista (in una accezione meno visiva di quella di Corrado Govoni e più simile a quella di F.T. Marinetti) ed uno spiritual afroamericano. L’ipotesi è basata su una notevole messe di dati e informazioni raccolte in campo dagli autori, che raccolsero le forse ultime vestigia delle plurisecolari usanze volte a sincronizzare il lavoro e l’attività di più persone tramite cantilene[15] e comandi vocali[16] e non appare priva di una qualche sua validità sostanziale, anche se le pur condivisibili analisi degli autori non possono applicarsi tout court al caso in specie, che appare affatto singolare rispetto agli esempi citati. Avverso a tale riduttiva interpretazione, che tendeva fonosimbolisticamente a ridurre la appas-sionata espressione dello spiritus popolare al pari di una banale marcia da parata, si levò alta la voce di Dwight Bolinger[17] che definì ingenerose e fuori luogo tali ipotesi, paragonandole, exempli gratia, alle imbarazzanti definizioni che volevano i geroglifici egizi come gli antesignani del moderno fumetto d’evasione. Però pur ammettendo che i versi in esame fossero qualcosa di più che il succedaneo di una allegra fischiettata, il problema restava insoluto. Sul piano sincronico, anzitutto: perché i dizionari continuavano e continuano a segnalare il termine “pizza” sia nel significato di “focaccia” che in quello, semanticamente affine, di “membro virile”[18], nel migliore dei casi limitandosi ad accompagnare alla registrazione un giudizio morale. E sul piano diacronico, poi: perché lo stesso termine, negli stessi significati, è stato recepito dai nostri classici, ed è autorizzato dalla storia.[19] Il significato del termine “pizza”, che caratterizza in maniera preponderante il poema di cui trattasi, evidentemente determina anche il significato dell’opera tutta e risolvere il quesito relativo al significato del singolo lemma vuol dire gettare ampia luce anche sul significato del carme tutto. A questa ultima finalità tendeva sicuramente l’analisi dei Proff. De Mauro, Orlolla et alter[20] che proponevano, in aperto contrasto con la vision dominante in un infausto periodo di stretta osservanza paleostrutturalista che che tendeva a negare l’apporto dialettico dei desiderata inconsci, una valenza mitopoietica strettamente legata ai riti propiziatori che, in tempi e luoghi diversi, sono volti ad assicurare fecondità e abbondanza impiegando simboli e figure che richiamano, in maniera più o meno esplicita, la figura del membro maschile eretto. Il fallo come simbolo archetipico della maschilità tout court[21] organo che dà la vita e che come tale viene onorato sin dalla notte dei tempi, dai graffiti nelle grotte di Altamira al Priapo dal fallo esageratamente sproporzionato, dalla corsa dei ceri di Gubbio alle processioni rituali in Giappone, solo per citare alcuni esempi conosciuti ai più[22]. Il carme vuole essere, per gli autori citati, un momento topico di passaggio tra una infanzia asessuata ed una età adulta in cui il maschio prende contezza e consapevolezza della propria appartenenza ad un preciso genere sessuale. Ciò avviene constatando praticamente – oseremmo dire “toccando con mano – l’organo che, come detto, esprime e riassume come una sineddoche la maschilità in quanto tale. A questa interpretazione, si parva licet componere magnis, si affianca la accurata esegesi compiuta dallo storico svedese Marcus Basilessord dello “Edda”[23], il grande poema epico scandinavo scritto nell'XI secolo dal bardo islandese Snorri Sturluson, in cui lo studioso, afferma che il sesto paragrafo dello VAFÞRÚÐNISMÁL (La canzone di Vafþrúðnir) in cui Óðinn si reca alla corte di Vafþrúðnir e lo saluta con queste parole: Pizza! Till dem som inte säger pizza med handen på pizzan! altro non sia che la traduzione in lingua svedese dei versi tarantini che già ben conosciamo, con i quali il saggio Óðinn sfida il re gigante Vafþrúðnir a dimostrare la propria virilità e quindi, dimostrando di poter assicurare discendenza e progenie alla stirpe regale, di avere titolo a sedere sul trono. Secondo gli studiosi che si riconoscono in questa analisi insomma, la solenne proclamazione dei versi, in ogni tempo e luogo, valeva a chiedere e ad affermare, in unus, l’appartenenza di genere sessuale di chi li esclama e di chi vi si unisce, in altri termini, una loro estrinsecazione logico-semantica sarebbe: pizza (Che riceva il nostro) pene a cì nò dice chiunque non affermi (di disporre del) pizza pene cu a mane sobbra a (evidenziandolo) con la mano sopra il pizza pene Insomma, o si è uomini, e lo di afferma e lo si dimostra poggiando la mano sul pube ad evidenziare la propria dotazione peniero-scrotale, oppure non si è uomini, e quindi si è destinati ipso facto a ricevere il pene di chi lo è. Tertium non datur, o almeno così dovrebbe essere.[24] Se quanto affermato dagli studiosi fin qui chiosati è vero e condivisibile, altrettanto si può dire però delle tesi sostenute da coloro, e non sono pochi, che nel termine “pizza” vedono un chiaro riferimento alla nota pietanza. Oltre agli esempi già citati in precedenza, è d’uopo riportare anche la ipotesi formulata dal glottologo russo Vajessyli Kasiashkuanov che, dopo un primo tentativo di dare soluzione al dilemma con gli strumenti della semantica generativa, si risolveva ad affrontare la questione considerando che la ripetizione della parola “pizza” non può non considerarsi la esplicazione dell’essere la stessa un esempio di archetipo junghiano e, come tale, sicuramente afferente ad una pietanza preparata da millenni nelle diverse parti del mondo in cui sono presente colture cerealicole. A riprova di ciò il Kasiashkuanov cita in un suo studio[25] la formula beneaugurante che le massaie ucraine recitano prima di infilare nel forno le loro focacce lievitate: ?8FF0 B> >= =5 3>2>@8B ?8FF0 A @C:>9 =025@EC ?8FF0 cosi traducendola: (Diamo una) pizza a chi non dice (di avere una) [e quindi implicitamente afferma di non averne, n.d.r.] pizza (e non può mettere) le mani sulla [non la manipola, ovvero ovvero non la possiede, n.d.r.] pizza e dando ai versi una evidente valenza apotropaica, relata senza dubbio alcuno alla mutua solidarietà assistenziale che permetteva nei secoli scorsi alle popolazioni contadine di affrontare periodi di carestia o siccità. Sicuramente influenzato dalla teoria egualitarista della economia sociale enunciata da Nupikkappedunov[26] ed in aperta contraddizione critica con il liberismo di Awantalov[27] il Kasiashkuanov permea di lirismo solidale la lirica in esame, spiegando come chi si accinge alla cottura di una pietanza fondamentale per la gens rurales impetri la buona riuscita della infornata, promettendo di dividere la pagnotta sfornata con chi, meno fortunato, non disponga di che sfamarsi. Come evidenziato da Yin, Yang & Young[28] le due visioni sono affatto divergenti tra loro: una individualista, fisica, razionalmente scientifica, mirante a dividere ed incasellare in generi i membri di uno stesso consesso civile; l’altra comunitaria, spirituale, moraleggiante, tendente ad unire in modo solidale il gruppo sociale. Difficile, sotto questo aspetto, trovare punti in comune per giungere ad una possibile sintesi, anche perché, nonostante la notevole mole di studi dedicati al carme in esame (e di cui questa sintesi ha solo citato la punta dell’iceberg) diversi e fondamentali interrogativi rimangono dibattuti ma irrisolti sul tavolo:[29] se pure si individuano i quattro attanti (Soggetto, Oggetto, Adiuvante e Opponente) e si rilevano le relative attorializzazioni esplicite tramite gli antroponimi “pizza” e “mano”, rimangono taciute ed irrisolte molte, troppe domande fondamentali (Di chi è la mano? Sopra a cosa è poggiata? Chi dice? Cosa dice? Perché lo dice?), situazione che costituisce il vero punctum dolens della situazione. I limiti di questo saggio ci impediscono di prendere in considerazione altri validi contributi critici all’appassionante problema della “pizza”, ci basti citare, per concludere, il recente saggio epistemologico di Magnus Stragapedulos[30] che in colui che potrebbe/dovrebbe dire (e non si sa se dice o dirà) vede un Terzo mondo oppresso ed in fermento e nella mano che si piazza sopra individua il simbolo della predatoria dominazione occidentale, che schiaccia ed annichilisce l’oggetto delle sue mire rapaci. Il voluto è impossibile e perché rimanga voluto deve rimanere per sempre irraggiungibile, pena la cessazione ipso facto del rapporti di desiderio instaurato; la “pizza” iniziale e quella finale, entrambe riverberantesi in quella centrale, sanciscono l’eterno ritorno, il perenne divenire per sempre incompiuto, l’incessante deja vu, simbolo tragico dell’amaro destino di Taranto a cui, per dirla con una acuta commentatrice,[31] “mancan’ sempre cinc’ solde pè fa nà lira”. Ci sia concesso, in un impeto di immodestia, sottolineare come questo contributo non sia nato come tautologica cronistoria del fattuale ma come stimolo ad interrogazioni ed analisi successive, come segno di un limite da superare e non in cui rinchiudersi, la “pizza” come simbolo silente di ciò di cui si parla, come espressione della effabilità del non detto e del non dicibile ma che pure, come novello tantalico supplizio, deve essere agito pur nella amara consapevolezza della sua impossibile composizione. Questo, e non altro, chiede a noi la Poesia. [1] Cfr. Filippo Maria Tregghia, “Pizza a the! – Contaminazioni italiche nel breackfast inglese”, Twining edizioni, 1868 [2] Cfr. Amalia Vattromori, “Da che mondo è mondo la pizza è pizza”, Caciucco edizioni. 1870 [3] Cfr. Jean Luc Sphilatine, “Tou la voulez mou ou quanne s’entouste?”, Tipografia dell’ Esercito Imperiale Francese, 1881, [4] Cfr Fra’ Favone da Todi, “Rendere pen per ficaccia”, abbazia di Montecazzino, 1322 [5] Si veda anche “Margherita, una pizza capricciosa”, commedia farsesca di Gustavo Lusorge rappresentata per la prima volta presso l’arena della villa Peripato in Taranto nel 1937, tutta giocata sulle disavventure di un uomo affetto da una disfunzione erettile. [6] Cfr. Art. 32 della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo” adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948: “Ogni individuo ha il diritto ad una ragionevole e soddisfacente quantità di rapporti sessuali da godere da solo o in compagnia di uno o più partner di genere sessuale diverso o uguale dal proprio.” Art. 43 della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo” adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948: “Ogni individuo ha il diritto di disporre di una quantità di pane fresco tale da consentirgli un sufficiente apporto di carboidrati, nel rispetto delle tabelle dietetiche stilate dalla commissione presieduta dalla Dott.sa Tirone”. [7] Juan Carlos Traulo Y Gruenco, “Morte di un commesso scopatore”, commedia in tre atti sessuali e un petting spinto rappresentata per la prima volta al Teatro Alhambra di Taranto nel 1889 [8] Otto Menekiaw, “Dall’, ca mo’ a tin’sott’!”, Lipsia 1922 [9] Cfr. Dott. Prof. Peter George Scettusang, “From wurstel to penis – a possible psichologic interpretation of Giocasta’s and Electra’s complex relatet to traditional food usage in German”, Atti del XXVI° convegno di Psicopatologia clinica, Linguate sul Membro (LC), 1965 [10] Patrick Petrapitz, “Roots of genius – Shakespeare’s Shoolastic works in his childhood”, in “International Digest of Philology”, Thames press, 1964 [11] Marcello Filonide, “Analisi mentulografica dei graffiti trilobati nella datazione di un ipogeo ionico”, in “Rivista dell’Istituto Coprolalico Italiano”, Poggibonsi, 1972 [12] Cfr. AA.VV., “Ti piace la pizza?”, su “Annali di Statistica Provocatoria”, 1976 e AA.VV., “What expect who order a pizza pie””, indagine condotta dalla Andersen,Grimm & Perrault Consulting Associated, 1977 e Nicola Copeta, “Pizza a cì no’ dice pizza cu a mane sus’accè cos’?”, su “La Voce del Volgo”, 15 maggio 1978 [13] Cfr. Noam Chomsky & Jean Claude Van Damme, “Il linguaggio del corpo e il corpo del linguaggio”, in “Supplemento Ordinario del catalogo Postal Market autunno – inverno”, 1980 [14] Cfr. Giovanni Acquasale, “La mancanza di labiodentali spiranti fricative gravi continue sorde e di labiodentali spiranti fricative gravi continue sonore in una nota composizione poetica popolare” in “Ingarbugliamenti”, Rivista della Accademia Ionica di Complicazione Affari Semplici, febbraio 1979 [15] Cfr. Noam Chomsky & Jean Claude Van Damme, “Cu u pile e senz’u pile e quidd’cu u pile battitel’ n’terra! – Sinossi addestrativa dell’esercito borbonico nel regno delle Due Sicilie”, in “Le Ore mese”, marzo 1978 [16] Cfr. Noam Chomsky & Jean Claude Van Damme, « Stuppì! Uè! – Furcè! Uè! – Anamorfismo disciplinare nei riti della settimana santa tarantina”, in “La Troccola di mamm’t”, House organ della Arcicontraternita femminile delle Devote Figlie di Pasife”, agosto 1979 [17] Cfr. Dwight Bolinger, “Language the Loaded Weapon. The Use and Abuse of Language Today”, Longman, 1980 [18] Si veda, ad esempio, il “Vocabolario del dialetto tarantino in corrispondenza della lingua italiana” compilato dal sacerdote Domenico Ludovico De Vincentiis,Taranto, 1872 [19] Valga, uno per tutti, il ricordo dell’aneddoto che, sul finire del XII° secolo, sulla piana di Canosa vede l’un contro l’altro armati il principe di Ramondello Orsini di Taranto ed il re Ladislao di Napoli. Quest’ultimo impose al primo di arrendersi senza condizioni ricevendo per tutta risposta uno sguaiato “Pizz’a’vè”, frase che certo non costituiva il prodromo ad un invito a partecipare ad un pic-nic sull’erba. [20] Tullio De Mauro, Amedeo Orlolla et alter, “A vuè nà pizz’? – i metalinguaggi erotici nella gastronomia d’asporto”, in “Sesso e volentieri”, rivista della Associazione Italiana Ninfomani e Sessodipendenti”, Novembre 1981 [21] Contro questa visione riduttiva e meccanicista non mancano comunque le voci di dissenso, volte ad esaltare la fondamentale e spesso misconosciuta valenza delle gonadi testicolari; si veda ad esempio la nota critica di Leopoldo Mastelloni intitolata “A che serve la stecca senza le palle?” e pubblicata su “Filetto e Filotto”, periodico semestrale di informazione edito dalla Associazione Italiana Circoncisori e Giocatori di Biliardo”, primavera – estate 1982 [22] Cfr. John Holmes, Rocco Siffredi et alter, “Cè pizza ca teng’osce – proporzionalità tra cachet di ingaggio e dotazione virile” in Atti del XXV° seminario internazionale di studi dell’Istituto Internazionale di Chiavologia Cinematografica, ottobre 1991 [23] Marcus Basilessord, “Dall’, ca Edda ha state!”, Dispensa privata redatta ad uso degli studenti del corso di filologia romanda della Università di Stoccolma, 1988 [24] Cfr. Moira Orfeo Fusco, “Masc’l, femmine, evarobbins e platinette”, in “No’ se capisc’ chiù a dretta – Rivista di critica sociale”, anno LVII, numero 6, giugno 1987 [25] Cfr. Vajessyli Kasiashkuanov, “Dammi la pizza se ti chiedo una pizza” in “Pane al pane, vino al vino – Rivista di ortodossia alimentare”, anno MCMLXXII, numero 15 [26] Evghenji Nupikkappedunov, “Tant’ a mmè e tant’ a tte”, in “Il sole dell’avvenire – rivista di abbronzatura menscevica”, Mosca, ottobre 1917 [27] Lev Davidovic Awantalov, “Cì sparte ave la megghjia parte”, in “Imparare il patrun’ e sotte in due ore – metodo pratico”, Yanovka, 1879 [28] Lu Yin, Lo Yang, Paul Young, “Ogni buco è purtuso è la regola del rattuso”, dispensa ad uso interno della Associazione Golfisti Anonimi, 1984 [29] Cfr. Achille Bollito Oliva, “E pizz’!”, in “Manifesto dell’Irascibilismo”, Caprino Veronese, 1963 [30] Magnus Stragapedulos, “A tène a’ capitale Atene?”, in “Saggi di geografia dubitativa”, Tre Carrare Editore, 1997 [31] Cfr. Rosalba Di Brutto, “Tucci, Tucci marescià”, in “Nà botta a u cerchie e nà botta a u tambagne – Analisi del programma della amministrazione comunale di Taranto per il quinquennio 2005 – 2010”, Cauro editore, 2005 |