Farmacopea popolare
L'ha scritt carlo "U Sinnache"   
luned́ 06 settembre 2004
"No' me stoc'a sent' bbuene, purtateme a u Gambere!", quante volte ognuno di noi, scherzando, ha pronunciato questa frase? Un modo di dire che richiama, nello scherzo, i tempi in cui la maggior parte dei malesseri aveva una sola causa: la scarsa o cattiva nutrizione, a cui le classi sociali meno abbienti erano costrette. Se il popolo non aveva di che mangiare a sufficenza, figuriamoci se disponeva delle risorse economiche per consultare un medico o per acquistare le medicine eventualmente da lui prescritte; e non era solo una questione di soldi, era anche, e forse soprattutto, una questione di fiducia. "Non a caso oggi il rapporto medico-paziente viene (o dovrebbe essere) incentrato su un rapporto di conoscenza e fiducia reciproca, non a caso è oggi provato quanto sia importante un ambiente sereno e "positivo" nel favorire il miglioramento della salute di un ammalato. Immaginate che rapporto ci poteva essere tra un medico ed un popolano, diversi praticamente in tutto, a partire dalla lingua parlata. Così, alle medicine sconosciute e che pochi si potevano permettere, la maggior parte dei tarantini preferive le cure ed i rimedi tramandati dalla farmacopea popolare, tramandati da secoli e preparati ricorrendo ad erbe ed altri componenti naturali.

Tralasciando i fenomeni e le pratiche relative al "tarantolismo", di cui oggi c'è un revival che permette ai più curiosi di recuperare molte informazioni con poco sforzo, iniziamo col parlare di una delle più note pratiche di guarigione dovuta alla suggestione (e non solo a questa, a mio avviso), che è la "fascinatura", il cui nome deriva da "affascinare" nella sua accezione di ammaliare, ovvero di avere un influenza negativa su una persona, a volte sino a portarla ad agire contro la propria volontà.

Solitamente la fascinatura si evidenzia con malesseri diffusi e difficilmente riconducibili a cause organiche o esterne, spesso con dolorose emicranie che resistono all'azione di analgesici ed antidolorifici e debilitano la vittima sino a costringerla a letto.

Causa di ciò si pensava fosse l'invidia di una o più persone in malafede che parlano bene della vittima, ne tessono le lodi e le fanno i complimenti per la sua bellezza, per la sua intelligenza o per altre sue doti ma in verità la invidiano e ne desiderano ardentemente la debacle fisica e spirituale. Proprio per questo, oggi come allora, a scanso di equivoci, molti evitano di fare espliciti commenti su terze persone (in particolare bambini e neonati) ed esprimono il loro apprezzamento con un generico "Benedica!", invocando la benevolenza divina ed escludendo quindi qualunque intento malvagio.

Questa concentrazione di energia negativa si scarica sulla vittima designata e solo l'azione di chi sia a conoscenza del rituale di eliminazione della fascinatura può porre rimedio al malessere. Detti rituali, come molti altri simili, vengono tramandati oralmente tra i componenti femminili della stessa famiglia e solitamente ciò avviene in occasione delle feste comandate più importanti (Natale, Pasqua, ecc.) proprio per sottolineare il carattere sacro dell'azione taumaturgica e l'indispensabile premessa che il "guaritore" è un tramite attraverso cui agisce e si esprime la divina forza salvifica.

Come è facile immaginare, poco è rivelato ai "non addetti" sulle particolarità del rito e la frammentarietà delle notizie è aggravata dal fatto che le modalità di esecuzione sono spesso assai diverse tra famiglia e famiglia, anche se tutte affondano le loro origini nei miti archetipici adeguati però, nel corso del tempo, in base alle esperienze della guaritrice.

Alcuni usano tracciare con la lingua una croce sulla fronte della vittima, richiamando il soffio vitale di Dio che dà anima e movimento al primo uomo come narrato nella Genesi, considerando la bocca e la lingua come mezzo di trasmissione e condivisione sia della conoscenza (nutrimento spirituale) che del cibo (nutrimento fisico). Altri tracciano sempre una croce sulla fronte della vittima, ma lo fanno col pollice, ripetendo il gesto della unzione col Crisma fatto in occasione della Cresima. Altri ancora usano mettere dell'olio e del sale (entrambi elementi sacri sia nella religione cattolica che in quelle che la hanno preceduta) in un piattino dove è appoggiata una mano della vittima, mentre il guaritore pronuncia le formule propiziatorie che servono ad individuare il male e, a volte, anche il "mandante".

"Bisogna dire che la componente psicologica-spirituale aveva una grossa parte in quasi tutte le pratiche di guarigione che, nella maggior parte dei casi, erano per l'appunto precedute e/o seguite da una precisa ritualità al limite tra il sacro ed il profano, in cui spiccavano le invocazioni ai santi protettori, tra i quali i più citati erano:
I SS. Medici Cosma e Damiano (molto venerati a Taranto) invocati come medici per tutte le malattie ("une jè miedeche e l'otre sane").
Santa Anna, madre della Madonna, invocata da gestanti e partorienti.
La Annunziata, che libera dall'ernia
San Vito, che protegge e guarisce dal morso dei cani.
Santa Apollonia, contro il mal di denti.
San Biagio, contro il mal di gola.
San Lazzaro, che guarisce dalla lebbra.
Santa Lucia, che protegge e cura la vista.
San Paolo, che protegge e guarisce dal morso delle vipere.
Santa Agata, invocata dalle donne con dolori al seno.
San Rocco, che libera e guarisce dalla peste.
Sant'Andrea di Avellino, che protegge dalla morte improvvisa.
Sant'Eligio, protettore dei quadrupedi
San Nicola, invocato dalle mamme nelle ninne nanne perchè i bimbi crescano buoni e tranquilli come Lui che, neonato, "no nazzecate e nno menne vulève" (non abbisognava di essere nè cullato nè allattato).

Naturalmente l'invocazione non era sufficente di per sè ad ottenere la guarigione e per questo si ricorreva, come detto, a rimedi di origine naturale. In molti casi la saggezza popolare applicava una omeopatia ante litteram; ad esempio, per scongiurare infezioni o altre pericolose conseguenze dovute al morso di cane randagio, sulla ferita veniva applicato un ciuffo di peli strappato dalla zona inferiore della gola del cane che aveva azzannato il malcapitato, come raccomandato dal detto "A cane ca te mozzeche, mitt' u stesse pile".

In tempi in cui alla abbondanza di cani randagi faceva da contraltare la mancanza di calzature, una delle eventualità più frequenti era "U canigghiule", overo l'infettarsi di una ferita ai piedi a causa delle strade lordate di escrementi animali (e non solo...). Per medicarla veniva preparato un cataplasma con un pezzo di stoffa prima bagnato d'olio e poi fatto bruciare sino a che non ne rimanevano che le ceneri, poi applicate sulla zona infetta.

Con la cenere calda veniva anche curato il mal di gola, realizzando con questa degli impacchi bollenti a cui seguiva l'azione della guaritrice che schiacciava le vesciche ("cazzava le mbodde") mormorando uno scongiuro, massaggiando con i pollici la piega anteriore del gomito ed il polso del malato ed invitandolo a deglutire ripetutamente.

Se l'orina poteva essere fonte di infezione, questa era anche impiegata come disinfettante, grazie al potere disinfettante dell'ammoniaca contenuta in essa; per questo, pescatori e contadini che si fossero procurati piccoli tagli o punture, prevenivano eventuali infezioni orinando sulla parte ferita; il rimedio era efficace a patto di applicare il rimedio "alla spina", poichè dopo pochi secondi di esposizione all'aria, a causa del suo carico microbico, l'orina avrebbe sortito l'opposto dell'effetto sperato.

Anche per curare gli orzaioli e le infezioni agli occhi che affliggevano i neonati veniva usata la loro orina, raccolta con panni di cotone poi prontamente impiegati per tamponare l'occhio malato. Se invece l'orzaiolo (popolarmente conosciuto come "rasciule") affliggeva non un infante ma un ragazzo o un uomo, la causa era certa: aveva spiato di nascosto una donna nuda, ed altrettanto certa era la cura, che consisteva nel passare ogni mattina, sulla parte malata, un anello d'oro.

Un altro malanno assai diffuso tra i bambini erano "le vierme", parassiti intestinali che provocavano gravi problemi organici e che potevano risalire sino alla gola dei malcapitati ospiti causandone il soffocamento. In questo caso la guaritrice si metteva il bimbo tra le gambe, tracciava col pollice destro bagnato di saliva una croce sulla fronte, sulla gole e sul ventre dell'ammalato, recitava una preghiera particolare e poi gli metteva al collo una collana di teste d'aglio che avevano, come oggi sappiamo, un notevole potere depurante e disinfettante. Le preghiere recitate erano, come detto prima, tramandate oralmente da madre a figlia e quindi spesso diverse tra loro; una delle più note era la seguente:
Mò se ne vènene Ianne,
Sìsina, Sùsene e Susanna;
accumbagnate dalla Vergine Maria.
Mò responne u Figghie ddè Die:
- Addò vè Ianne?
- Addò n'ome battezzate
da le vièrme jè suffucate.
Ije da 'n cape le destàcche,
e 'n terra l'attacche.
Annome d'u Patre, d'u Figliole e d'u Spride Sande.

Parlando ancora di bambini, che allora come oggi erano la fascia di popolazione più debole ed esposta alle malattie, a quelli troppo vivaci o che avevano un sonno scarso ed irregolare veniva somministrato "u papagne", una sorta di decotto ricavato dal papavero in cui si inzuppava un rudimentale succhiotto ("u pumetidde") realizzato con un pezzo di cotone arrotolato. Lo stesso rimedio veniva impiegato anche per gli adulti, in particolare per calmare chi soffriva di forti dolori e gli afflitti da epilessia ("u male") o da disturbi che causavano repetini sbalzi d'umore.

Specialmente in campagna, come cicatrizzante ed emostatico era frequentemente usata la tela del ragno ("a peluscina") mentre l'azione caustica del lattice del fico veniva usata contro porri e verruche.

Un cannellino di carta arrotolato, unto d'olio ed avvolto da un lungo capello femminile o da un crine di cavallo, a volte dotato anche di un ciuffo di prezzemolo, veniva inserito nell'ano dei bambini che soffrivano di stitichezza per favorirne l'evacuazione, operazione che in dialetto veniva chiamata "a pustecedde". Ai bimbi che invece soffrivano i dolori alle gengive dovuti alla dentizione veniva invece applicato "u muende d'a cìosa rossa", un balsamo ottenuto pestando in un mortaio il frutto maturo dell'albero del gelso.

E nell'infanzia non erano solo i neonati a soffrire di svariati dolori; anche le puerpere avevano i loro problemi, tra i quali il più diffuso era forse la mastite, una infiammazione delle ghiandole mammellari che causava indurimento del tessuto e impedimento alla fuoriuscita del latte e che veniva curato con "u pile d'a menna", ovvero un capello femminile o un pelo strappato dalla coda di un cavallo che si intrecciava sulla mammella dolorante per ottenerne l'ammorbidimento. Un altro problema dovuto all'allattamento erano le ragadi al seno, sottili e dolorose ulcerazioni chiamate in dialetto "serchie", curate coprendo i capezzoli con le valve dei noci di mare precedentemente unti con lo sputo, in modo che la parte dolorante venisse preservata dallo strofinio contro il reggiseno. Terminiamo l'elenco dei rimedi tipicamente femminili con la citazione delle "petre d'u sanghe" e delle "petre d'u latte" portate al collo rispettivamente dalle donne con mestruazioni scarse e dolorose e da puerpere con poco latte

Altro malanno assai comune erano i foruncoli ("punteddere") o altre piccole ulcerazioni purulente, che a seconda della zona del corpo dove erano presenti venivano denominati in maniera diversa e subivano diversi trattamenti. Così le "punteddate" e le "panaricce" erano la conseguenza di punture di spillo, di amo, di chiodo o di spina di pesce sulle dita, e venivano curate le une col lievito di birra e le altre con il pomodoro, cambiati periodicamente e alternati ad immersioni del dito nell'acqua calda. Alla funzione di blanda disinfezione e di ammorbidimento dei tessuti da parte dell'acqua calda si affiancava così l'effetto dell'acido del pomodoro e del lievito di birra, che provvedevano ad eliminare i batteri, causa del pus.

Contro i foruncoli in genere veniva impiegato "u muende", un unguento a base di ittiolo e foglie di basilico mentre contro le "fafe" che comparivano dietro al collo il rimedio era un impiastro di sterco di colombo coperto con una foglia di balsamino, una pianta usata generalmente per la cura delle ulcerazioni.

Contro la tumefazione dei linfonodi inguinali ("le nucedde intr'all'ence") dei bambini veniva invece impiegata una "terapia d'urto" assai particolare: il bambino veniva denudato e poi rivestito con un camicione aperto alla altezza della gola e che arrivava sino ai piedi; dalla apertura veniva infilato un tizzone di carbone acceso che usciva dalla parte inferiore, mentre veniva recitata l'invocazione "O a petra lasse, mine u fueche e passe!" il tutto ripetuto tre volte. Vuoi per lo spavento, vuoi per il brusco movimento di ritrazione del ventre che il bambino faceva per evitare di scottarsi, fatto sta che la malattia pare scomparisse.

E sempre lo spavento era alla base della cura contro il singhiozzo ("u segghiutte") che però veniva a volte risolto anche in maniera meno traumatica, bevendo tredici sorsi d'acqua; operazioni entrambe che, arrestando i movimenti spasmodici del diaframma, eliminavano il fastidioso inconveniente.

L'elenco potrebbe continuare per molto, con la descrizione di impiastri emollienti, cataplasmi, infusi e decotti basati su ingredienti sempre "a portata di mano": malva, salvia, ruta, capelvenere, aglio, sambuco, camomilla, olio d'oliva, foglie d'arancio e tanti altri. Ci piace concludere citando una specie di rimedio universale: "l'uegghie d'u pesce sciorge", che si estraeva dal fegato di un pesce che assomigliava, come dice il nome, ad un topo. L'olio era preparato dai pescatori ed era così prezioso che veniva dato in dote alle figlie quando si sposavano. L'olio puzzava in maniera tremenda ma in compenso l'effetto aveva del miracoloso: bastavano poche gocce perchè anche le ferite più profonde cicatrizzassero velocemente!

Sulla efficacia dei trattamenti vi sono pochi dubbi, funzionavano. Sul perché il campo è aperto a tante ipotesi: dalla autosuggestione alla pranoterapia, dall'azione divina allo sciamanesimo applicato, dalla energia della comunità che "salva" uno dei suoi membri (come nel caso dei tarantolati) a tutto quanto oggi la new age ha riportato di moda, a volte in modo improprio.

La vasta disponibilità di antibiotici e medicine in genere ha fatto dimenticare l'esistenza e l'efficacia di questi rimedi, e questo non può che essere un peccato, vuoi per il loro valore di memoria storica, vuoi per la loro azione quasi sempre priva di effetti collaterali, a differenza dei moderni preparati farmaceutici. Con questo non si vuole certo auspicare un cieco ritorno al passato ma piuttosto un recupero ed una maggiore attenzione a questi medicamenti che, dopo aver attraversato i secoli rischiano oggi di perdersi nell'oblio.

Personalmente posso testimoniare dell'efficacia di queste cure dove gli antibiotici hanno fallito: è il caso di mio figlio che, quando aveva pochi anni, dopo una inutile serie di iniezioni e cure antibiotiche per periodiche infezioni alla gola, guarì (coincidenza?) dopo l'applicazione al braccio, per tutta una notte, di un impiastro a base di paritaria, erba infestante conosciuta in dialetto come "erve d'u viende", preparato da una sua anziana zia.

Come è facile immaginare, quanto sopra riportato non è che un elenco parziale, sicuramente incompleto e probabilmente impreciso delle cure che fino a non molti anni fa venivano usualmente impiegati per guarire le malattie e gli infortuni più comuni. Molte delle informazioni riportate sono tratte dal bellissimo libro "Ràdeche vecchie" di Cosimo Cassano - Mandese Editore e da alcuni articoli di Antonio Fornaro pubblicati da "TarantoSera", integrate da esperienze e ricordi personali. Concludo invitando i lettori a segnalare eventuali errori, integrazioni ed aggiunte, al fine di correggere ed ampliare questa modesta opera di memoria.
Ultimo aggiornamento ( luned́ 24 gennaio 2011 )