Vecchie attrezzature...
L'ha scritt Administrator   
mercoledì 17 novembre 2004
Vecchie attrezzature per la pesca in mare

Un lungo e interessante articolo pubblicato sul numero di "Voce del Popolo" oggi in edicola è dedicato alla pesca nei mari del tarantino ed agli attrezzi all'uopo usati. Pensando di fare cosa gradita lo ripropongo agli amici di lista che per motivi geografici non hanno la possibilità di procurarsi una copia del citato quindicinale.

Un unico avviso ai puristi della ortografia vernacolare: L'autore si è giustamente prodotto in un mirabolante impego di vocali accentate, sdrucciole e toniche non tutte comprese nel catalogo dei caratteri speciali del programma di elaborazione testi da me impiegato. L'avvertito lettore sappia che i due puntini superiori alla vocale "e" sono stati sostituiti da due puntini laterali e perdonando questa licenza rifarsi, per la pronuncia, più ai suoi ricordi che alle fredde regole grammaticali.

I MILLE ATTREZZI DELLA PESCA TARANTINA

di Michele Pastore

Ideale gita scolastica di un istituto professionale a riva di mar Piccolo. Allievi in circolo e il maestro che parla di quel lago aperto e della sua storia, dei mitili, dei gamberetti post-secolo XV, dei suoi prodotti e delle risorse primarie derivate dalla pesca.

Quindi dei mestieri nati attomo, tra quel doppio seno prima ancora di essere segnato dal ponte delle Tre P. E prima ancora del secolo dei mitili. "E per il resto era luogo di attività di pesca, per cui i pescatori avevano inventato i più disparati attrezzi ancora in uso nell'Ottocento". Quanti, quali; domanda improvvida.

Un mare e tutto in stretto dialetto tarantino: `a guadóle:, `u spédóne:, 'a ménàide:, 'a `ntamagghiàte:, `a sciàbbéche:, `a schètte:, `u grípe:, `u rusàcche:, `u cucùzze: tra le differenti reti. In mar Grande e dintomi venivano ancora usate: `a chiangióle:, `u tramàgghie:, `a palametcíre:, `a sguatrcíre: e le: ríte: baldasciúne: le reti più grandi tra tutte.

Altri attrezzi da pesca erano: `u tramuànne:, `a secciaróle:, `a vrànghe:, `a fósce:ne:, , il frugnòlo (`a jacche:), le nasse, `u pérnuète:che:, lo specchio, `u cuènze:, la lampara. Da mordersi la lingua. Quella domanda!

Eccoli in scrupolosa rassegna i vari "mestieri", per capire com'erano fatti e come funzionavano.

A guadóle:, rete rettangolare i cui estremi erano collegati a lunghi pali. Funzione di guardiania,veniva usata per sbarrare il guado dei pesci da mar Piccolo verso mar Grande, con la corrente detta di "serra" (dal latino serit). Si usava durante la stagione estiva e nelle notti senza luna. Un pescatore particolarmente esperto avvisava dal ponte i compagni rimasti in barca a manovrare la rete, dell'arrivo dei pesci e quelli piazzavano rapidamente in mare l'attrezzo. Si. pescavano soprattutto sardine, triglie, anguille, mormore e bianchetti.

`U spédóne:, rete di sbarramento, collocata in mare perpendicolarmente alla costa; serviva a catturare pesci di fondo. L'etimo arriva direttamente da un italiano medievale, "spedone", a sua volta derivato dal francese "espiet".

'A me:nàide:, rete rettangolare anch'essa di sbarramento, lunga alcune decine di metri e recante da un lato una serie dì galleggianti e dall'altro una sequela di piombi. Dalla barca veniva distesa sull'acqua ed affondando dalla parte dei piombi si disponeva verticalmente senza però toccare il fondo; serviva a catturare i pesci a mezz'acqua.

'A `ntamagghiàte: (italiano: saltatoria) era composta da due parti: la superiore sorretta da canne opportunamente distanziate tra loro e sistemate lungo la stessa rete; la parte inferiore era libera ed appesantita da piombi. Veniva calata in mare dalla barca in modo da racchiudere un'area circolare. Si calava a sera, la si ritirava il mattino seguente. I pesci rimasti prigionieri nella parte inferiore della rete, soprattutto cefali, tentando di sfuggire con i loro tipici guizzi, finivano per ricadere nella parte superiore, galleggiante per via delle canne. Tecnologia da fisica semplice semplice.

'A sciàbbe:che: era lunga e munita di galleggianti e piombi, collegata a due braccioli a loro volta legati a due lunghe funi. Un gruppo di tre o quattro pescatori restava a terra col capo di una fune; un altro, stando in barca lasciava cadere in mare la rete man mano che la barca s'allontanava dalla riva; ritornava poi in un punto d'approdo distante da quello di partenza col capo dell'altra fune. I due gruppi tiravano all'unisono la rete che, strascicando sul fondo, raccoglieva ì pesci prigionieri tra i braccioli e la stessa rete. Alleanze terra-mare a scapito della fauna ittica.

'A schètte: , rete di sbarramento, si stendeva in mare verticalmente, prima il linea retta e poi a spirale attomo ad un ideale punto centrale. Veniva utilizzata per la pesca degli sgombri, dei merluzzi e delle occhiate.

`U grípe: tradisce le sue origini magnogrecule (dal greco antico "gripos"), altra rete di circa dieci metri d'altezza; veniva utilizzata per la pesca dei cefali. Ce n'è ancora, ragazzi.

`U rusàcchie (giacchio, sparviero) era una piccola rete circolare munita perifericamente di piombi e di un legaccio centrale. Il pescatore, stando a riva e vincolando ad un polso l'estremità del legaccio, lanciava la rete che s'apriva a rosa prima di cadere in acqua, ed affondando poteva imprigionare i pesci che incontrava.

`U cucùzze: (dal latino cucutium), piccola rete a maglie strette, si usava lungo le scogliere, veniva calata in mare a cerchio, lasciandovi una piccola apertura per fare entrare la barca; chiusa la rete i pescatori battevano i remi sull'acqua per spaventare i pesci nel recinto che, per fuggire; restavano impigliati nella rete. Una vera e e propria battuta di caccia.

`A chiangióle:, rete usata per la pesca della lampara.

`U tramàgghie:, lunga rete di sbarramento tutt'ora in uso. Consistente di tre teli, quello centrale a maglie assai larghe. I grossi pesci che incappavano in una delle reti esterne, divincolandosi finivano definitivamente prigionieri nella rete interna.

`U tramuànne:, anch'essa ancora oggi in uso, è praticamente un sacco di rete aderente ad una struttura metallica trainabile da una barca ed usata per catturare piccoli pesci o anche molluschi.

Piuttosto singolare `a secciaróle:, attrezzo recante uno specchio usato nelle notti di plenilunio, per la pesca delle seppie. Tenuto contro una fiancata della barca, lo si orientava in modo da proiettare sull'acqua il riflesso della luna. Le seppie attratte in superficie, venivano catturate con un coppo. Falene di mare

A fósce:ne: (fiocina) insieme a `u frùgne:le: (fiaccola, lanterna) usati per la pesca notturna dagli scogli, consentivano 'a jàcche: (dal latino fac(u)la passato per metatesi a fiacca da cui il vocabolo tarantino); il pescatore di tale mestiere era detto jaccarúlè (dal latino jaculator ossia lanciatore). Esistevano più tipi di fiocine fino a quelle a dieci denti. Guai a farsene irretire.

'A vrànghe: (e se di grandi dimensioni vrangóne:) era una sorta di rastrello collegato ad una lunga pertica di legno utilizzato per dragare dai fondali marini soprattutto molluschi. In certi casi l'attrezzo era munito anche di un sacco a rete.

Spazio alle nasse tarantine, di varia grandezza, maglie larghe o strette per le differenti pesche; si costruivano in loco utilizzando steli di giunco. Un mestiere oggi pressochè scomparso.

`U pe:rnuète:che: era uno strumento di ferro consistente in due braccetti ricurvi saldati tra loro ad un anello entro cui alloggiava una lunga pertica. Veniva adoperato dalla barca per la raccolta delle pinne o nacchere.

Lo specchio era una sorta di visore consistente in un telaio metallico cilindrico recante un vetro adattato; appoggiato sulla superficie dell'acqua consentiva al pescatore munito di fiocina di vedere sott'acqua e fiocinare i pesci. La pesca che se ne faceva era rigorosamente notturna.

`U cuènze:, (palangrese) era un lungo filo sorretto da galleggiante a cui venivano sospese numerose lenze con ami diversamente innescati a seconda dei pesci da catturare. E' antichissimo attrezzo da pesca risalente alla preistoria come testimoniano i numerosi ami di bronzo ritrovati a Punta Chiarito di Ischia.

Quella della lampara è pesca tutt'oggi attiva. Si pratica di notte e ne fa le spese soprattutto il pesce azzurro. Consiste in una lunga rete da circuizione da più barche munite di grosse lampade a carburo.

Trascurando attrezzi e reti usate in mar Grande ed aree limitrofe del Golfo quali `a palametàre:, `a squatràre: e le ríte: baldasciúne:, eccoci alle pesche del tutto particolari ed uniche quali erano, infine quelle: d'a chiomé, dé l'auraté a' sturnúté e `a pèsché d'a capòzzé aduaté (ossia del cefalo in amore).

La prima si praticava quando le acque di mar Grande entravano attraverso il Canale con la corrente di "chioma" (da un latino volgare haptoma cioè "estensione"), nel periodo che andava dai primi d'ottobre alla fine di novembre. La seconda si praticava con lenze allo sbocco dei fiumi. La terza. Ancora? Bè, la terza la lasciamo descrivere a Tommaso Nicolò d'Aquino che così riferisce:

"Insegue il cefalo/ la sposa soggiogata al canapo sottile/ via via che il pescator solerte in acque! calme la trascina: lui vien gagliardo/ vicino, per non perdere l'amante/ e le si stringe al fianco e la blandisce./ Ma mentre in tal modo la consola / la fiocina feroce lo ferisce/ al dorso: un poco fugge ... poi già madido/ di sangue a lei ritorna e i danni sprezza/ ed i tormenti acuti del dolore/ pur se più volte morso"

Ultimo aggiornamento ( giovedì 25 novembre 2004 )