Matrimoni d'altri tempi |
L'ha scritt Carmela "Jatta acrest'" | |
sabato 19 maggio 2007 | |
E' Maggio! Un mese importante, il mese di San Cataldo, della Madonna, delle mamme, delle rose e...... delle spose.
L'arrivo della primavera oltre le belle giornate, porta con sé la voglia di innamorarsi, di coronare il sogno di una vita nel matrimonio, che nonostante il progresso e i cambiamenti dello stile di vita, costituisce da sempre, una tappa della nostra vita, uno dei riti più importanti della vita. In passato ogni ragazza si chiedeva chi avrebbe realizzato il suo sogno di essere moglie e madre, per appagare questa curiosità, molte fanciulle si rivolgevano alle masciàre (megere, fattucchiere) e si sottoponevano a riti e quant'altro potesse dare loro delle risposte, seppure effimere - ad esempio, esse, durante la notte della vigilia di San Giovanni, mettevano l'albume di un uovo in un bicchiere, all'aperto; la mattina seguente, a seconda della forma che esso assumeva, era possibile stabilire il mestiere del loro futuro sposo. Secondo un'usanza, i due innamorati si strappavano un ciuffo di capelli e lo gettavano al vento, questo perchè se in futuro, uno dei due avesse voluto sciogliersi dalla promessa, avrebbe dovuto ritrovare quelle ciocche, cosa praticamente impossibile. Anticamente, l'uomo, doveva compiere una serie di prove per meritare l'amore della ragazza di cui era innamorato e per avere il consenso dei suoi familiari. L'avvicinamento da parte del giovane alla fanciulla prescelta, non era un'impresa facile; le occasioni, infatti, erano minime e il contatto tra uomo e donna in pubblico era vietato. Una delle possibilità di incontro veniva offerta dalla Messa domenicale, dove tutto il popolo si recava puntualmente. Altrimenti, i ragazzi, approfittavano delle feste organizzate dalle famiglie durante il Carnevale, anche se l'occhio vigile delle mamme impediva loro di fare grandi movimenti. L'onore, per la donna, rappresentava la sua chiave d'accesso nella vita sociale, e i genitori si affannavano affinché rimanesse intatto. La giovane donna, per difendere la sua moralità, non doveva accettare subito la corte dell'uomo. Proprio per questo comparivano gli intermediari (paraninfi) - detti: port'enùsce, o zanzàne - che, in cambio di regali o di beni in natura, offrivano la loro collaborazione, che consisteva nel fare opera di convincimento presso la fanciulla e nel recapitarle bigliettini e messaggi amorosi. Consegnavano, poi, alla ragazza, una fotografia del pretendente; se essa decideva di tenerla, voleva significare che accettava la sua proposta. A questo punto, poteva considerarsi "zita" (fidanzata), e il ragazzo "zito" (fidanzato). Questa prima fase del fidanzamento avveniva di nascosto, tant'è che i fidanzati erano definiti "ziti scunnuti" (di nascosto dai genitori), o "ziti a scusa" (perchè dovevano inventarsi sempre una scusa per potersi vedere). Successivamente, i mediatori dicevano alla madre della giovane dell'avvenuta unione, e se essa, dopo aver preso informazioni, si accertava che il ragazzo, provenisse da una buona famiglia, dava la sua approvazione. Il ragazzo "tràseve indre a casa", poteva entrare a casa della fidanzata per la prima volta. Questo passaggio, definito la "trasatura" (entrata), concludeva la fase clandestina del rapporto tra i due innamorati. Da questo momento per le famiglie, cominciavano una serie di riti obbligatori di circostanza. I genitori della fanciulla, dopo otto giorni esatti, si recavano a casa del giovanotto, per fare la "canuscenza", dei futuri compari e per parlare della dote. In questa riunione, definita "'u parlamient'", si quantificavano i rispettivi averi, che dovevano necessariamente equivalere, perché non erano permesse le unioni fra giovani appartenenti a classi sociali diverse. Se alla fine tutto concordava, si fissava la data della cerimonia del fidanzamento ufficiale, alla cui festa partecipavano i parenti e gli amici, che, dopo un rinfresco, assistevano allo scambio degli anelli. Ufficializzata l'unione, l'uomo poteva vedere la sua amata solo nei giorni e negli orari prefissati dai suoi familiari che, generalmente, erano le serate del giovedì, del sabato e della domenica. La fanciulla riservava, nella sua abitazione, una sedia nuova "a' seggia di lu zit' " per il fidanzato e, nel caso il fidanzamento veniva rotto e i giovani si lasciavano, la sedia veniva appesa ad un palo, per far vedere a tutti che era "libera". Vigeva la proibizione assoluta di incontri fuori casa, anche se, in casi particolari, i due ragazzi uscivano insieme, ma accompagnati sempre da almeno un componente delle loro famiglie. I due innamorati, durante la visita del ragazzo, sedevano agli estremi opposti del tavolo e conversavano, senza avere alcun contatto, guardati dalla madre seduta al centro. Molto spesso, recitavano il Rosario con tutto il parentado e i vicini di casa, consuetudine quotidiana delle antiche famiglie. Anche lo scambio vicendevole dei regali era ordinato da regole ben precise, secondo le quali ogni iniziativa era a carico del sesso maschile. Questi doni, dovevano essere custoditi con molta cura, perché in caso di rottura del fidanzamento, la loro restituzione era obbligatoria. Nel periodo del fidanzamento, si organizzavano i preparativi per il matrimonio. La fanciulla, dopo aver scelto la sua futura dimora, dava gli ultimi ritocchi al corredo. Lo sposo invece cominciava a "cacciare le carte". Quando i documenti erano pronti il ragazzo comunicava la data in cui sarebbero andati a "spaccare la croce", ossia il giorno del matrimonio in comune. Un giorno importante ma non solenne. Il matrimonio in comune allora era visto come una semplice formalità burocratica, tant'è che i ragazzi vi si recavano accompagnati dai loro genitori, e i testimoni, venivano scelti a caso, tra le persone presenti al momento. Il giorno in cui uscivano le pubblicazioni, la suocera, regalava alla nuora una collana d'oro, che indicava il legame profondo che univa le loro vite. Questa cerimonia, detta "da' catena" (della catena), si concludeva con un banchetto. Da questo momento, e fino al giorno delle nozze, la ragazza rimaneva chiusa in casa, uscendo esclusivamente per recarsi in Chiesa. In tali giorni, essa, trasferiva il corredo nella nuova abitazione. Il giovedì prima dalla celebrazione del rito matrimoniale, il corredo veniva esposto per " 'a mòstra da' dote" - così anche i regali ricevuti - e tutti gli invitati alle nozze erano invitati " a vedè casa" e a partecipare a questa esibizione. Il corredo era esposto nella stanza da letto, che per l'occasione si preparava con "'a cascia" e "'u cummò" aperti per mostrare "li panni", e il letto che sfoggiava la migliore coperta del corredo, sulla quale venivano sparsi i confetti, sempre beneauguranti, fiori bianchi e a volte anche monete per propiziare ricchezza. In tale circostanza, la fanciulla donava alla suocera uno scialle o un vestito, e al futuro sposo una camicia con i gemelli, ricevendo in cambio l'abito da sposa. Tra piccoli rituali e grandi preparativi arrivava il giorno tanto atteso, ed era una grande festa per tutti. Il giorno delle nozze i conoscenti della sposa si appostavano fuori casa sua e aspettavano che uscisse col padre, dopodiché, in corteo, si percorrevano le strade del paese e si arrivava in chiesa, dove c'era lo sposo con i suoi familiari ad attendere il resto della ciurma. Gli addobbi floreali in chiesa erano sempre presenti, ma senza eccessi, il fotografo non mancava mai e i compari d'anello erano solitamente due. Finita la cerimonia religiosa, sempre in corteo, si andava tutti a casa dello sposo, dove si teneva il pranzo nuziale. Più stanze erano adibite ai festeggiamenti. Si mettevano le sedie tutt'intorno alle sale, gli invitati si sedevano e aspettavano con impazienza di poter mettere qualcosa sotto i denti. Erano anni duri, quelli, anni in cui la fame era una realtà giornaliera e la gente, stretta nel suo "vestito della domenica", un po' impacciata perché poco abituata alle etichette, non vedeva l'ora di assaporare ciò che non poteva quasi mai avere. Un cameriere, con la sua giacca bianca e i suoi pantaloni neri, passava in tutte le stanze e, oltre a servire le pietanze, animava la situazione, cantando, ballando e intrattenendosi con gli ospiti. Non pensiamo ai ricchi pasti che ci vengono serviti oggi nelle grandi e fastose sale dei ristoranti. All'epoca si offrivano liquori vari preparati dai genitori dello sposo: mandarinetto, sambuca, alkermes, strega, ecc. E poi c'erano gli immancabili dolcetti di pasta di mandorle, molto attesi da tutti. Successivamente, faceva il suo ingresso un altro protagonista della giornata, il Vermut, nel quale alcuni si azzardavano ad inzuppare dei biscotti e poi tutti gli altri seguivano a ruota, perchè era un piacere al quale nessuno riusciva a sottrarsi. Pian piano si arrivava allo spumone e ai "pezzi duri", i gelati di una volta, che piacevano molto ai bambini. Per finire, se le famiglie degli sposi potevano permetterselo, si distribuivano rosette con la mortadella, il cui aroma si diffondeva in tutta la casa, facendo venire a tutti l'acquolina in bocca. Ciascuno, in cuor suo, sperava che non mancasse tale prelibatezza, visto che si poteva gustare solo in queste speciali occasioni. Gli sposi, per concludere, passavano con un cestino pieno di confetti e ne davano cinque ad ognuno come segno di buon augurio. Dopo aver salutato e ringraziato, gli ospiti lasciavano i giovani maritati con i parenti più stretti, i quali si fermavano per cena e poi ritornavano a casa loro. La prima notte di nozze, marito e moglie non si coricavano nel letto nuziale, sul quale si deponevano il velo, con la ghirlanda di fiori d'arancio, e l'abito nuziale. Si credeva, infatti, che su di esso dovesse scendere un Angelo benigno per benedirlo. L'indomani a casa degli sposi, c'era il "pranzo del giorno dopo", interamente organizzato dalle suocere, a cui partecipavano la famiglia dello sposo e la famiglia della sposa. E dato che la tradizione imponeva che durante la prima settimana, gli sposi non potevano uscire dalla loro dimora, questa tiritera andava avanti per otto giorni: sempre pranzi a casa degli sposi, All'ottavo giorno dopo il matrimonio, poi, marito e moglie indossavano vestiti eleganti avuti in dote ed effettuavano la loro prima uscita in pubblico - detta " a' scinnut' alli ott' " - gli sposi si recavano in Chiesa e partecipavano alla "funzione", dopo aver ascoltato la Messa, si recavano a casa dei genitori dello sposo per desinare ("il pranzo degli otto giorni"). La suocera approfittava dell'occasione per regalare alla nuora un telaio, un fuso, una conocchia e una scopa, per ricordarle che, ora, avrebbe dovuto occuparsi delle faccende domestiche. Dopo altri otto giorni si ripeteva il rito solo che questa volta il pranzo si svolgeva a casa dei genitori della sposa ("il pranzo dei quindici giorni"). Anche in tale circostanza i due giovani indossavano abiti eleganti mai usati prima. Dopodiché, la vita degli sposi cominciava il suo corso ordinario. Mentre l'uomo lavorava, la donna si prendeva cura della casa. Quante cose sono cambiate da allora. Quanto spreco aleggia intorno al "giorno del si". Nel passato si tendeva più a valorizzare l'importanza religiosa dell'evento, oggi ci si perde dietro futili esteriorità. Bastava un panino con la mortadella per veder sorridere chi era ai ferri corti con la vita, oggi invece quanto "Ben di Dio" ci passa sotto gli occhi e neanche ce ne accorgiamo, e viene sprecato. |
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Ultimo aggiornamento ( sabato 19 maggio 2007 ) |