Frisedde, pampanedde e acquasale
L'ha scritt Carmela "Jatta acrest'"   
domenica 29 luglio 2007
 In una pubblicità di merendine, si vede una bambina che appena alzata cerca di scappare fuori casa a giocare, e alla mamma che le ricorda di fare colazione lei risponde: <Ma fa caldo!>…..
E come darle torto! D’estate si ha sempre voglia di fresco, anche di cibi freschi e bibite dissetanti e rinfrescanti.
E cosa c’è di più buono, fresco, nutriente di un prodotto della nostra tradizione?

Da piccola amavo l’estate perché potevo chiedere a mia madre “Pane ollo e popò” – che nel linguaggio post- lallazione,  indicava proprio la frisella, olio e pomodoro! – che adoravo!
Quanto gusto e quanta freschezza  nelle nostre  “FRISEDDE”!
Ingredienti essenziali, gusto autentico e una fragranza solare.
La frisedda racconta l’umanità di gente povera ma dignitosa, sfruttata ma non rassegnata, che per mare o in campagna ha sempre lottato contro mille avversità  rimanendo tuttavia, sempre  ridente e mai malinconica.
La frisedda è tutto questo: cibo allegro, rustico ma genuino, semplice ma nobile, perché racchiude in se un valore simbolico e affettivo che va oltre il significato meramente nutritivo e gastronomico.
Essa racconta la fatica e suscita nostalgia, non per l’atavico languore della fame pre e post bellica, ma per il rapporto degli uomini con la natura, che col tempo è diventato sempre più superficiale.
Una nostalgia per il filo diretto  uomo-terra-cibo,  e tra lavoro, cibo e  festa - dopo tanto, duro lavoro arrivava il momento tanto atteso del raccolto, un momento sempre di lavoro e fatica, ma che era sempre motivo di festeggiamenti. Feste che ripagavano gli uomini del lavoro di un anno intero, ma che in qualche modo  perpetuavano i riti pagani di ringraziamento alle forze della natura,  che avevano reso possibile il miracolo.
Legami che davano significati particolari a colori, profumi, sapori, aromi.
Frisedde….di grano duro, d’orzo, grandi quanto il palmo di una mano, ottime per la prima colazione, per una sana merenda,  o per una cena alternativa…..la frisedda è un eccellente stuzzichino.
Anche la frisedda nacque per caso: ...Un fornaio disattento aveva lasciato  dei panetti nel forno, più del necessario, e si biscottarono. Ma il cibo, e soprattutto il pane, non si poteva buttare. Occorreva trovare una soluzione. Il fornaio li portò a casa, aprì in due i panetti, lungo lo spessore, li sponzò, in acqua e li condì con olio, pomodori, sale… Così la sua distrazione si rivelò molto gustosa ma soprattutto utile, infatti la frisedda essendo pane biscottato, poteva conservarsi più a lungo senza fare la piluscina - ammuffire...

Le frisedde venivano conservate in capasoni e con esse i contadini risolvevano il problema del pasto, quando trascorrevano l’intera giornata nei campi.
Ma bisogna anche dire che la nostra amata frisedda ha ascendenze nobili e antenati  illustri.
Il pane degli antichi greci era la <meza> un composto non lievitato di farina d’orzo e acqua, biscottato sotto la cenere o su pietre roventi.
Era un tipo di pane che si conservava bene, adatto ai lunghi viaggi per mare .
Del resto i pescatori conoscono bene la bontà delle nostre cozze, accompagnate con le nostre fragranti frisedde!

La “frisedda”, sempre presente nelle estati tarantine. Giornate trascorse sulle spiaggette del lungomare, allora praticabili,  e al “pizzone”, a sud del mar piccolo, prima che costruissero il ponte.
…Tra sole e polvere  gli antichi turisti campagnoli  arrivavano sugli “scerabbà” cantando e raggiungevano le spiagge. Arrivati, le donne  “spannevan nu ‘ghiascione tra ‘u scerabbà e due pali conficcati nella sabbia, mentre gli uomini scavavano una fossa a  rip’ de mare,  nella battigia,  e vi mettevano le bottiglie di vino e i meloni rossi e gialli,  per mantenerli freschi.
Così cominciava la festa,  tra scamunere di bambini che gridavano , uomini con le mutande lunghe e donne in camiciola bianca che arrivava al polpaccio – tutti a bagno,   aspettando di poter mangiare le parmigiane e le maccheronate tenute in caldo nei traini - e tra un bagno e una risata si spizzicavano le frisedde, “spunzate” nell’acqua di mare e condite con spicchi di pomodori san marzano.
Il tramonto raccoglieva tutti sullo stesso scerabbà, la pelle striata di salsedine e i volti avvampati dal sole e si prendeva la via del ritorno, tra canti iniziati e non finiti e i più piccoli esausti, in braccio alle loro mamme, che avevano indossato di nuovo i loro vestiti scuri…
Da noi il turismo è nato così. Stabilimenti balneari, ristoranti e pizzerie e discoteche, sono venuti dopo, tutti figli di quelle frisedde ‘nzuppate nel mare.

Allora come non ricordare <L’ACQUASALE>.
Cos’era? Un’altra  pietanza povera semplicissima e gustosa, inventata per riutilizzare al meglio il pane raffermo, o per gustare le frisedde…
D’estate un vero toccasana...
Mia nonna, prendeva “nù piatte riale” ci metteva dell’olio, dei pomodori tagliati a spicchi, una cipolla rossa tagliata a fettine sottili, capperi e basilico sale e pepe e poi riempiva la coppa di acqua. Rimestava bene bene e poi ci inzuppava le fette di pane duro o le frisedde…
una freschissima delizia!
Ma l'acquasale si preparava anche in inverno, naturalmente in una versione calda... anzi bollente...
si soffrigge la cipolla nell’olio, poi si aggiungono i pomodori e il peperoncino ed in fine l’acqua e il sale. Si fa bollire per un po’, giusto il  tempo di amalgamare i sapori e poi si versa in un piatto dove  ci sono i pezzettini di pane, e si condisce con una  spolverata di cacio ricotta salata ... e … ci si lecca i baffi!

..In tempi lontanissimi, i contadini arrivavano dalla Porta di Lecce o di Napoli, nella piazza Grande di Taranto (la nostra Piazza Fontana, sempre cara - nonostante lo scempio) con un prodotto che andava subito a ruba: LA PAMPANELLA.
C’è ancora chi ricorda,  nelle strade del  borgo  l’uomo in bicicletta  che  gridava: <“Pampanè!”>
Altri andavano sulla litoranea presso gli stabilimenti balneari, per offrire agli assetati bagnanti questa rinfrescante prelibatezza nostrana.
Un’usanza scomparsa per tanti anni, perché relegata tra i ricordi che riportavano alla luce il nostro povero passato. Una povertà da molti rinnegata e considerata “da dimenticare” perchè umiliante.
Ma ultimamente ,  le nostre povere tradizioni stanno piano piano ritornando, rivalutando il nostro passato in storia,  e sulle nostre spiagge si ritorna a sentire il grido: <Pampanelle! Pampanelle fresche! Pampanelle!>
dal venditore  che attraversa il litorale trascinando un secchio contenente le prelibate pampanelle.
Cibo esclusivamente estivo, la pampanella richiede pochi ingredienti naturali: latte di pecora, caglio una foglia di fico. La pampanella è latte cagliato, un budino di ricotta avvolto nella foglia di fico, che le conferisce il profumo .
Il suo nome deriva dal fatto che all’inizio, invece della foglia di fico si usava la foglia della vite, il pampino , appunto,  che riusciva a mantenere fresco il contenuto – scopo principale di tale trattamento.
Poi indifferentemente si usarono  anche le foglie di fico, che erano anche più grandi e avvolgenti – e ci si accorse che erano anche impregnate dell’odore di resina che conferiva alla ricotta un profumo speciale.
Un fagottino verde e bianco che riunisce, in un rimando alle antiche leggende (la lupa che allatta Romolo e Remo all’ombra di un albero di fico),  gli elementi primordiali dell’alimentazione, il latte e il fico.
Nulla di spettacolare, però fresca ,  invitante, dal sapore  delicato,  un'ottimo contrasto con il sale dell'acqua di mare e la calura estiva.

Chi di voi non ha provato l'elettrizzante esperienza di aiutare la mamma o la nonna a fare la salsa o i pelati in casa?
Ricordo da bambino, come ogni anno speravo che quello fosse quello buono per smettere di fare i boccacci di pelati e le bottiglie di salsa.
Ma no, puntualmente intorno ad inizio luglio o giù di li si tornava a casa un bel giorno dalle scorribande estive e si trovavono stipate li sul balcone di casa quelle 8/10 casse di pomodori (un quintale e mezzo o due quintali) che aspettavano solo di essere lavorati.
A noi bambini, una volta riversato il contenuto delle cassette sul pavimento del balcone, il noiosissimo compito di separare i pomodori integri da quelli abbozzati mentre contemporaneamente si dovevano rimuovere 'l zipper'.
Una volta eseguita questa operazione rigorosamente sotto il sole cocente di luglio, si passava al lavaggio degli stessi e poi a seconda della qualità e delle specie si passava alla sbollentatura di quelli destinati a diventare pelati per poi assicurarli nei famosi boccacci precedentemente sterilizzati, mentre altro procedimento seguivano i pomodori destinati a diventare salsa.
Sempre a noi bambini toccavano i lavori di concetto, ovvero la prima e la seconda spremitura con quell'aggeggio infernale a manovella che permetteva la trasformazione dei pomodori in un semilavorato che poi le mani sapienti di mamma e nonna dopo lavorazioni varie trasformavano in quella salsa che andava a rappresentare la conserva per tutto l'anno.
Infine a noi ancora toccava il lavoro divertente dell'applicazione dei tappi una volta che i grandi avevano eseguito l'imbottigliamento in vetro assolutamente di bottiglie di birra RAFFO che per il loro colore tipico marrone pare si prestassero meglio alla conservazione della salsa.
Che ricordi... da me ormai non si segue più questa tradizione, c'è qualcuno di voi che invece ancora si presta a questa tortura? (tortura per i bambini)

E’ vero che l’usanza estiva di fare la salsa si va perdendo, complici  le “offerte” convenienti  di pelati e passate, nei nostri supermercati, e il prezzo troppo alto dei pomodori, che non va al di sotto di 0,45 cent/kg - alleati della nostra poca voglia di  “’nzivamiento”.
Comunque i fedelissimi della salsa “fatt’ a casa” esistono ancora, e sono tanti. Motivo  per cui si vedono girare ancora “trerrote” carichi di “cascette” con cartelli del tipo…”POMODORI PER BOTTIGLIE”…

Quello che invece si è perduto è la preparazione de “ A’ CUNSERVE”.
Molti credono sia la stessa cosa, ma non è così. C’è una differenza sostanziale tra salsa e conserva: La salsa è il succo del pomodoro, che dopo la spremitura e la bollitura viene imbottigliato mentre la conserva è il concentrato,e la sua preparazione richiede tecniche e tempi diversi.
Per ottenere “ a cunserve”  i pomodori ben maturi, si mettevano a cuocere in una  “càtara” (caldaia), con abbondante basilico, cipolla tagliata sottile e sale. Quando si ammaccavano, venivano tolti dal fuoco e passati alla “strattiera”, una sorta di grattugia sulla quale venivano schiacciati a mano. La salsa ottenuta veniva raccolta in “piatte riale” di creta che si esponevano al sole, sulle terrazze, dove i raggi del sole sono più diretti. Sui piatti si stendeva un velo per proteggere la conserva dall’assalto delle mosche e intorno ai piatti si usava mettere un rametto di àlaure (alloro) contro gli spiriti maligni.
Di sera i piatti venivano riportati in casa per evitare che l’umidità della notte e la rugiada del mattino, distruggessero l’opera del sole che era  l’unico responsabile della riuscita della conserva.

Si lasciavano al sole per giorni e giorni, rimescolando spesso il contenuto con una “cucchiara” di legno, sino a quando il composto, evaporando, si restringeva diventando denso e di colore rosso scuro tendente al marrone. Si amalgamava con  dell’olio d’oliva  e si riponeva in capase smaltate con “tampagni di legno che prima di essere utilizzati, venivano messi a bagno in acqua per qualche ora così gonfiandosi, garantivano una chiusura ermetica del recipiente.
Queste capase venivano poi bollite a bagnomaria per circa mezz’ora, prima di essere gelosamente custodite per le giornate invernali, quando ne bastavano pochi cucchiai, opportunamente sciolti in acqua calda e conditi con olio e peperoncino, per dare alla pasta  la dignità regale e il sapore della festa.

...Tra le bancarelle dei mercati rionali, e su alcune spiagge , tra gli ombrelloni e le sdraio , capita di vedere sotto un  ombrellone multicolor, un banchetto con una miriade di bottiglie di vari succhi e pile di bicchieri di plastica, e al centro troneggia, su una lastra di marmo, una stecca di ghiaccio secco. Unico attrezzo del mestiere “ ‘u piallett’” per tritare il ghiaccio. .. si tratta di…‘U GRATTA-GRATTE

U gratta-gratte era il gelato di una volta. Non perché i gelati non ci fossero, ma perché erano cose da ricchi, riservati ai banchetti dei nobili, prelibatezze riservate ai giorni di festa e alle grandi occasioni.
Anche i romani conoscevano i gelati. Plinio descrive il dolce estivo dei romani <farina leggera, vino mielato e neve>.
Seneca invece descrive l’uso e l’importanza, nell’antica Roma,  delle “neviere” che descrive  come immensi sotterranei dove veniva custodita la neve caduta durante l’inverno, ricoperta di paglia, per farne buon uso all’occorrenza.
Anche nelle campagne Tarantine ogni palazzo e ogni masseria aveva una neviera, di solito alimentate dalla neve della vicina Martina Franca.
Sulla scia dei gelati  fatti con quella neve il popolo  usando il ghiaccio secco inventò ‘u gratta-gratte. Rinfrescante delizia estiva….per tanti anni dimenticata ed ora giustamente rivalutata.

Ultimo aggiornamento ( giovedì 09 agosto 2007 )