Frutta di “staggione”.
L'ha scritt Carmela "Jatta acrest'"   
domenica 05 agosto 2007
 Ormai è staggione, quella con la doppia “g” che nell’accezione dialettale del termine, identifica proprio l’estate.  Una stagione calda e ricca di frutti buoni, succosi e saporiti, che le nostre campagne  ci regalano.  Alcuni proverbi di staggione recitano:
<Quanne arriven le fich ‘u melone se ve ‘mpich’> : i contadini sapevano bene che quando maturavano i fichi, le angurie non erano più buone, ormai troppo mature… sfatte …  spaddàte, mannàte
<So ‘ buen le fich’ le ceràse, ma ‘màr’ à ventre ci pane nò trase>: la saggezza popolare ricordava che fichi e ciliegie, sono buoni, ma che per saziarsi ci vuole sempre il pane.
Che buoni però, fichi, fichidindia, cirase, ciòse, nummere ........

I fichi.
 Antichi quanto la storia, sono  un elemento base dell’alimentazione dei Greci che durante un giuramento, chiamavano a testimoni :   < le divinità,  la patria,  il grano,  l’orzo,  le vigne, gli ulivi … e i fichi >.  Dominano  la tavola dei cretesi che lo mangiano a tutte le ore e in tutte le occasioni, freschi o secchi.   Si racconta che il Re indiano Bindusare,  chiese ad Atene:  <…sciroppo d’uva, fichi e…un filosofo>,  i primi due gli furono inviati,  con questa risposta:  <…è contro la legge commerciare in filosofi >.
Disprezzati per molti anni, perché considerati alimentazione povera, oggi, i fichi secchi sono una delle primizie culinarie, presenti negli scaffali delle botteghe di specialità tipiche salentine e sono vendute a peso d’oro.
Il fico era uno degli elementi base della dieta contadina, sia perché la pianta fruttifica facilmente (e in modo relativamente veloce) sui terreni aridi, tipici delle nostre zone, sia perché il frutto si può conservare senza molti problemi.  Esso rappresenta un’ottima riserva energetica, sfruttabile durante i mesi invernali.
Sicuramente i vecchi contadini ricordano ancora gli arnesi utilizzati per la raccolta, che coinvolgeva l’intero nucleo familiare: “’u rocche”  - bastone a forma di uncino utilizzato per la raccolta dei frutti più in alto e “’u  panare” -  contenitore a forma di secchio, fatto con  rami e canne impagliate.
Sulle rive del mediterraneo se ne contano almeno 44 varietà, e anche le nostre campagne sono ben fornite… dai fichi dalla buccia verde come  “le san jiuanne, le vùttate, le vèrdune, le vernèle, le tabaccose……ai fichi dalla buccia nera come  “ le santamaria, le passùdde, l’ acine de pèpe ” .
I frutti che maturano per primi non sono molti, ma sono più grossi e sono  chiamati "le culùmme" – fioroni;  i frutti maturati precocemente e caduti al suolo, chiamati “carachizze”, venivano utilizzate per l’alimentazione del bestiame.
Per la conservazione era necessario seccare i fichi tramite esposizione al sole, dopo averli “spaccati” ( aperti in due metà), venivano poggiati su “’u cannizze”, ossia uno strato di canne e giunchi intrecciati. Dopo la fase di essiccazione,  i fichi potevano essere cotti  in forno e lasciati “sciolt”, oppure potevano essere “accucchiati”, ossia accoppiati, farcendoli all’interno con  con mandorle tostate, cannella e pezzi di cioccolata,  e poi cotti in forno.  Poi sia "le fich' sciolt’" che quelli “cucchiati” venivano riposti a strati in con semi di finocchio e foglie di “àlaure” -  alloro, prima di essere riposti a strati in  “capase” o “pitali”  -  contenitori di terracotta smaltata  –  e conservati per il periodo invernale.

Le ficatindie
 Camminando per le nostre campagne è facile  vedere i muretti a secco delle strade vicinali coperti da piante enormi formate da pale spinose e ricolme di grappoli di frutti colorati, verdi, gialli, rossi, viola. Una buccia colorata e ricoperta di spine, quasi a voler proteggere un frutto tra i più saporiti e succosi,  pieno di semini duri, ma digeribili – il fico d’india.
Mai nome fu più bugiardo! L’India, infatti, non c’entra nulla con questa spinosa pianta di origine Messicana. I conquistadores Spagnoli, convinti di trovarsi all’altro capo del mondo, attribuirono al turgido frutto questo nome improprio. Quando gli Spagnoli vennero nel Sud dell’Italia a dare vita al viceregno,  prodigo di fasti e di miserie, portarono con sé i semi di questa pianta che nelle nostre terre aride e sassose trovò l’habitat per crescere rigogliosa, diventando una delle piante simbolo della campagna salentina.
Ma il fico d’india non ebbe molta fortuna perché i signori non si avventuravano  tra i folti rovi spinosi. Troppa fatica!
Una storia, forse realmente accaduta, la racconta tutta sull’ostracismo di cui fu vittima il fico d’india nei tempi in cui anche il cibo era elemento di distinzione tra “cafoni” e “signori”.
Si racconta che un contadino delle nostre parti, nutrendo immensa ammirazione per Ferdinando II di Borbone, decise di recarsi a Napoli per regalare a sua maestà,  “nù panare” de frutta  fresca.
Dopo tanto pensare e ripensare, decise di portare al Re “le ficatindie”, la moglie gli disse che non era frutta da portare a un sovrano e gli consigliò di portare mele cotogne, per fare bella figura.
Il contadino non l’ascoltò e di buon’ora si mise in viaggio ”cu nù panàre de fica tigne”.
Arrivato a Napoli, prima di giungere nei pressi del palazzo reale, con u n affilatissimo coltello si mise a sbucciare  i frutti; completata l’operazione chiese alle guardie di essere portato dal Re per offrirgli il suo devoto omaggio.
Le guardie lo ascoltarono, si guardarono ammiccanti e cominciarono a prenderlo in giro, ma quando si accorsero che il contadino portava anche un coltello, pensarono che volesse attentare alla vita del Re,  lo arrestarono e lo misero ai ceppi; ma quando il fatto giunse alle orecchie del Re, questi  ordinò che venisse portato alla sua presenza. Tremante e ancora con la sporta in mano, il poveretto comparve davanti  al Re, e inginocchiandosi raccontò del faticoso viaggio che aveva affrontato e del dono che aveva voluto portargli .
Il Re scoppiò in una risata e capì che quell’uomo non era altro che stolto, perché nessuno avrebbe mai regalato ad  un sovrano dei fichi d’india  e che meritava una punizione. Ordinò che il poveretto fosse portato nel cortile e che quella miserabile frutta gli venisse buttata in faccia. I soldati eseguirono l’ordine, ma mentre i polposi frutti si spappolavano sul viso del contadino, egli rideva a crepapelle, tant’è che una guardia  gli chiese:<Ma tu sei tutto scemo? Sei stato punito dal Re e ridi?> e il contadino:<E come non ridere! Se avessi dato retta a mia moglie e avessi portato mele cotogne, quelle sì che mi avrebbero gonfiato la faccia!> e dimentico della punizione per l’incompreso gesto di devozione, continuò a ridere finché l’ultimo fico non gli si spiaccicò in fronte."

Le Cìose.
 Bello, ripararsi all'ombra di un grande gelso, durante la canicola......
e bello deliziarsi coi suoi frutti.....le cìose, appunto.
Una leggenda riguardante le origini di questo frutto, ci viene regalata da Ovidio nelle sue Metamorfosi, con  un  racconto molto simile alla tragedia shakespeariana di Romeo e Giulietta. Qui i protagonisti sono due giovani babilonesi ... due innamorati che appartenevano a due famiglie che si odiavano a morte ...
“…Piramo e Tisbe , erano ragazzi e abitavano nello stesso edificio. Una volta furono sorpresi a baciarsi e furono rinchiusi in due sgabuzzini nelle cantine del palazzo. La parete che li divideva però aveva un piccolo buco, sfuggito a tutti, da cui si sussurravano le più tenere frasi d'amore. I due progettarono un piano per fuggire, avrebbero incatenato i loro guardiani ed avrebbero sottratto loro le chiavi per uscire. La nutrice di Tisbe era una donna ingenua, ed era molto facile sottrarle le chiavi, mentre Piramo si era messo daccordo con il suo guardiano che avrebbe finto di essere stato aggredito e gli avrebbe consegnato le chiavi. I due ragazzi si dettero appuntamento nel bosco di Nini, vicino ad una fonte e a un albero di gelso dai frutti bianchi. Tisbe si libera per prima e va nel luogo dell'appuntamento. Ad un tratto vede una leonessa con la bocca insanguinata. Ella scappa, ma nello scappare perde il mantello. La leonessa vede il mantello e lo lacera con la sua bocca sporca di sangue. Quando arriva Piramo, non vede Tisbe, ma vede solo il suo mantello lacerato e sporco di sangue. Raccolse il mantello, lo baciò e si trafisse con un pugnale. Il sangue di Piramo giunse alle radici del gelso che da allora ha cambiato il colore dei frutti, facendoli diventare tutti neri. Tisbe era ancora impaurita, ma non voleva deludere Piramo, tornò nel luogo dell'appuntamento e vide il suo amato steso a terra. Piramo ebbe solo la forza di aprire gli occhi per vedere Tisbe e morì. Tisbe lo baciò, gli tolse il pugnale, se lo puntò sul seno e si tolse la vita”.
Esistono tutt’oggi sia gelsi bianchi,che neri.
Quelli bianchi, provenienti dall’estremo oriente si diffusero in Europa soprattutto per via della produzione della seta; le sue foglie, infatti, costituivano il cibo prediletto ed esclusivo dei bachi.
Il gelso nero, invece, ha come zona d’origine il medio Oriente, e già i Romani ne conoscevano i frutti che erano apprezzati da tutti non solo da Ovidio.
 
Le nùmmere
 Camminando per le strade di campagna o lungo i litorali è facile trovare delle piante immense, ricoperte di fiori bianchi e rosa e di spine “le scuèrpe” – i rovi – che ci regalano dolcissimi frutti rossi e neri, “le nùmmere – le more. E’ una pianta che cresce nei luoghi assolati e polverosi, non gli importa di avere vicini calcinacci, desolazione e rovine,radica facilmente e per questo è poco amata dai contadini che la classificano infestante e a tal proposito  gli hanno dedicato un detto:  dalle nù fazzelette e te l’acchie indre ‘u liette” proprio perchè a questa pianta  basta un fazzoletto di terra, per attecchire e riempire tutto il terreno, invadendo anche la casa.
I frutti maturano da aprile – maggio, sino a settembre – ottobre . Da questo momento le more non sono buone, perdono il sapore, si coprono di ragnatele e di muffa.  Secondo una  leggenda …
“l’11 ottobre Satana, cacciato dai cieli, precipitò in un boschetto di rovi, ed ogni anno in tal giorno il maledetto esce dall’inferno, e torna sulla terra per scagliare la sua maledizione contro il pungente cespuglio”.
Altra leggenda narra che…
“ Lucifero, sia stato scaraventato giù all’inferno, dall’Arcangelo Michele,  e per questo dal 29 settembre le more dei rovi, non dovrebbero essere mangiate perchè Lucifero per far dispetto all’Arcangelo  Michele  compie il suo satanico rituale malefico sputando sopra ai frutti che maturano in questo periodo.”
Sacro a Saturno, maltrattato dal linguaggio dei fiori che gli attribuisce l’invidia, uno dei peccati capitali, il rovo è amato dai poeti, che lo ritengono degno di adornare il regno dei cieli.
Pianta conosciuta e apprezzata anche dagli antichi Romani.
Virgilio così ne scrive: “è tempo di intessere canestri leggeri con virgulti di rovo”.
Il botanico Plinio , affermava che le foglie contuse curavano le punture di scorpione e di serpente.
Sia la pianta che i frutti, infatti, hanno proprietà depurative, diuretiche, antireumatiche e dissetanti...
…e se andando per more  ci si ferisce, per fermare il sangue, basterà  schiacciare qualche frutto e applicarlo sulla ferita, disinfetterà il graffio e lenirà il bruciore.