U ciuccie s'ha carescia e u ciuccie s'ha futte
L'ha scritt Piergiorgio   
martedì 03 agosto 2004
Avevo invitato alcuni amici a visionare con me il film "Shichinin-no-Samurai" di Akira Kurosawa nella versione integrale di 210 minuti e, con l'occasione, ciascuno degli invitati aveva come d'uso portato qualche appetizer da condividere con i presenti.

Al termine della piacevole serata, dopo aver congedato gli ospiti, raggiunsi Archibald che stava rassettando nella sala TV chiedendogli se in cucina fosse rimasto qualcosa da mangiare.

Alla domanda l'oblungo maggiordomo rimase alquanto stupito, chiedendomi se non avessi gradito a sufficienza delle pietanze recate dagli ospiti.

A tale osservazione, un po' irritato dal languore che provavo, risposi bruscamente: "Cèccosa, quidde s'honne manciate tutte quidde ca s'honne purtate;
honn'fatt' accome u ciuccie ca prima s'ha carescia e po' s'ha futte!" (Ma quando mai, si sono mangiato tutto quel che avevano portato; hanno fatto come l'asino che prima la trasporta [la paglia] e poi se la mangia!).

Il vecchio Archie equivocò il mio dire e stigmatizzò la mia frase, facendomi notare che, se pure il comportamento dei miei ospiti era stato poco corretto, era pur sempre eccessivo apostrofarli come asini.

Volli sgombrare subito il campo dall'equivoco e, dopo essermi preparato due friselle con pomodoro, olio, sale e origano, chiesi al mio maggiordomo di seguirmi in biblioteca, dove mi procurai la opera omnia del filosofo cipriota Kostantinos Harrakanatos (Nicosia, 1811 – Crollo della copertura di una tomba a camera durante una campagna di scavi archeologici clandestini in zona "Saturo", 1859) che fu margravio della zona S. Vito – Lama – Carelli e suonatore di marimba acrobatica presso la "Hostaria Re Nudo".

Nel suo saggio di taglio esistenzialista dal titolo "Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Quante Raffo ordiniamo?" lo Harrakanatos prende in esame il detto da me citato, indicandolo come esemplare paradigma della natura intimamente egoista dell'uomo.

In particolare il filosofo cipriota afferma che l'espressione in oggetto viene impiegata a commento di una situazione o di un atto in cui l'agente abbia operato "pro domo sua", al pari di un animale da soma che, recato seco un carico di foraggio, lo consumi da solo una volta giunto a destinazione.

Per la natura stessa del detto, il suo ideale campo di impiego è nel settore sociale e più specificatamente nell'ambito di rapporti di baratto gastronomico-alimentare in cui il "do ut des" regna sovrano, come nell'evento a me occorso. Il destinatario di tale motto, a differenza di Gesù nel miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, finge di offrire ai commensali quanto da lui recato, finendo invece, in maniera più o meno evidente, col consumarlo da solo; può così capitare di sentir citare l'espressione nei vari momenti in cui si consumi un bene comunitario nell'ambito di un consesso sociale: esempi tipici sono quelli in cui qualcuno prepari uno spinello, lo accenda e lo fumi sino a metà con la scusa di controllare se tira bene, così come il tipico barbecue in cui il latore della sasizza la metta sulla brace e, con la scusa di assaggiarla per controllarne la cottura, arrivi fin quasi a terminarla da solo.

In senso traslato di più ampio respiro, il motto viene anche impiegato a commentare atti o situazioni in cui un singolo tenti di far apparire un suo agire come mosso dalla volontà del bene comune mentre in realtà è determinato da un tornaconto affatto personale. Si veda, ad esempio, il sospetto espresso da Massimo Stragapede dei confronti del sig. Tonino Palumbo dopo le migliorie da quest'ultimo apportate al loro campetto di calcio, come descritto nel suo epico "Il Torneo di Viale Monaco" – Scorpione Editore, o il commento di un disincantato uditore di un comizio elettorale in cui un candidato affermi di essersi impegnato nel far realizzare strade e/o opere di urbanizzazione di vario genere per il bene della comunità tutta, tacendo il particolare del possesso di una serie di villette a schiera nel comprensorio urbano servito.

Anche in questo detto, come in molti altri, si rivela la atavica attitudine del tarantino ad accettare in maniera quasi passiva atti lesivi del benessere sociale, giungendo a volte finanche ad una loro malcelata ammirazione, considerandone l'autore non un malfattore da esecrare ma un furbo da imitare. Nello specifico di cui trattasi, l'ingordo (reale o virtuale che sia) viene apparentemente offeso, nel paragonarlo al tanto bistrattato equino, ma nel contempo appare quasi giustificato, come se avesse ceduto alla natura ed opportunamente approfittato dell'occasione offertagli.

Proprio per evitare che qualche commensale goda non solo del proprio ma anche dell'altrui, l'invito a desinare presso l'ospitale desco viene concluso, con tono scherzoso ma con seria intenzione, con la chiara chiosa: <> (Portate [da mangiare] per voi, così mangerete insieme a noi!)

Ultimo aggiornamento ( martedì 10 agosto 2004 )