l'adolescenza di un rattuso |
L'ha scritt carlo "U Sinnache" | |
luned́ 25 gennaio 2010 | |
Si, sono un rattuso, lo sono sempre stato, come lo sono stati in tanti, nella mia generazione, nati negli anni sessanta. Una generazione che si affacciava alla pubertà in una città abbastanza provinciale come Taranto mentre nel resto del mondo cominciava a diffondersi l’uso della minigonna e del bikini, mentre in tantissime case entrava il catalogo “Postal Market” con le sue pagine dedicate all’intimo femminile (che viste oggi sono di una castità inenarrabile, ma allora sembravano un crogiuolo di lascive promesse) , mentre il pubblico televisivo era ipnotizzato dall’ombelico “tuca-tuca” di Raffaella Carrà e dalla frangetta androgina di Loretta Goggi. Come si fa a non essere rattuso a sedici anni, quando vedi che alle tue compagne di classe quasi d’improvviso si gonfia il petto, quando saresti disposto ad uccidere per fare il gioco della bottiglia nelle feste in casa, unica occasione in cui – tra luci psichedeliche faidate e beveraggi rigorosamente analcolici puoi sperare di abbracciare qualcuna di loro e sentire (immaginare?) le loro curve in boccio, chiedendoti tra te e te se le sue erano più o meno grosse di quelle di Venusia in “Goldrake”? Diciamo la verità, allora mentre un ragazzo a sedici anni era solitamente ancora un bambino che al massimo faceva con gli amici la gara a chi ce l’aveva più lungo, avendo vaghissime idee sul come usarlo, le ragazze, per via di quella rete di solidarietà tutta femminile, erano praticamente già donne, ampiamente in grado di utilizzare a loro vantaggio tutti i trucchi della seduzione, ma c’era un luogo, uno solo, dove la nostra sia pure inesperta virilità poteva prendere il sopravvento, un solo luogo dove le chiacchiere stavano a zero e l’istinto era tutto, dove non erano ammesse dilazioni, ripensamenti, perplessità o sofismi. Le giostre. Avendo un padre originario di un paese della provincia, non mancavamo mai ai festeggiamenti in onore del santo patrono e chiunque creda che noi attendessimo le giostre solo per avere qualche ora di svago non ha memoria o contezza di quello che significava essere ragazzi, specie allora. Abitavamo a Paolo VI e quando a due passi da casa hai gravine da esplorare e alberi da scalare, cani randagi da ammaestrare e bande rivali con cui scontrarsi a colpi di pietre e fionde, quando hai viali immensi e deserti da percorrere a tutta velocità con un “carruzzone” autocostruito con tavole recuperate dai cantieri edili e tre cuscinetti a sfera no, non hai bisogno delle giostre per divertirti. Le giostre erano terreno di caccia e di conquista, e le prede erano (o credevamo che fossero, come poi amaramente scoprimmo ascoltando il primo LP dei Litfiba...) loro, le ragazze. Noi rattusi lasciavamo volentieri ai bulletti di periferia in overdose da testosterone i traballanti catafalchi muniti di una palla di cuoio da prendere a pugni rischiando la slogatura del polso così come ci tenevamo ben distanti dai tiri al bersaglio in cui si dilapidavano interi capitali per ottenere – se fortunati – due pacchetti di wafer similsegatura. Noi avevamo altri obiettivi, con molta voglia e poco tempo per raggiungerli. L’animo (chiamiamolo così...) si surriscaldava già all’approssimarsi della zona che ospitava le giostre, dove sciamavamo tutti come lemming inconsapevoli, viavia che ci si avvicinava lo spazio diminuiva e la gente aumentava, le distanze si riducevano ed i sensi si affinavano. Pressati nella calca, l’olfatto coglieva sempre più nettamente l’inebriante mix di ferormoni e profumi dolciastri che le fanciulle spandevano a litri; il peso degli abiti, dovuti alla stagione invernale, non bastava a coprire agli occhi della fantasia quello che le pupille fisicamente non riuscivano a cogliere, le nostre mani sfioravano, anche senza volerlo, i loro corpi, e come le vibrisse di un gatto riportavano al nostro cervello i segnali adrenalinici che supereccitavano muscoli e nervi. Arrivati alle giostre, ciascuno di noi sceglieva il suo terreno di caccia. C’era chi si orientava verso la giostra con le sedioline legate da quattro catene che ruotando venivano innalzate sempre più vicine al fiocco sotto ad un pallone, ma chissenefrega del fiocco, l’obbiettivo era lo stesso di quelli che salivano su ruote panoramiche o qualunque altro oggetto che prevedesse un cambio di quota altimetrica, possibilmente rapido: scrutare sotto le gonne sollevate dallo spostamento d’aria, sperando di intravedere un barlume di intimo o un po’ di epidermide al di sopra del ginocchio. C’era chi, più audace e fortunato, offriva un giro sugli autoscontri ad una amica ignara (?) del vero motivo della generosa offerta, ovvero causare tamponamenti e impatti tali da generare il sobbalzo del loro seno, da scrutare attraverso cappotti e maglioni. La possibilità di crollare addosso alla fanciulla era presente ma remota, stante la posizione al fianco, molto meglio – per questo – luoghi più adatti come la casa degli specchi o il tunnel della paura (il “tagadà” ancora non era stato inventato), in cui, con la scusa del disorientamento, si finiva guardacaso sempre addosso alla più popputa delle presenti. I più romantici tentavano approcci mielosamente galanti, cimentandosi in imprese impossibili come il vincere la tartarughina o il pesce rosso lanciando anelli da infilare nel collo di una bottiglia, o tentando di afferrare un peluche morbidoso con una specie di artiglio meccanico comandato da un joystick, animali e oggetti che nelle intenzioni dovevano essere donati alla fanciulla bramata che, in cambio, avrebbe concesso magari anche un bacio. Queste erano le giostre per noi, questo era il motivo per cui attendevamo il 19 marzo, San Giuseppe, frementi come i cavalli al canapo del palio di Siena. Una fibrillazione che la “pleistescion generescion”, con tonnellate di megapixel di immagini pruriginose disponibili in Rete, non potrà forse mai capire. |
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Ultimo aggiornamento ( luned́ 25 gennaio 2010 ) |