Quando sono in giro per lavoro in posti remoti come quello dove mi trovo ora, mi capita di condividere l’esperienza con dei colleghi. Ahimé, solitamente trattasi di conterronei. Dico ahimè invece di esserne contento, poiché quest’ultimi sono quasi sempre così intrisi di tarantismi, tanto che preferirei cent’anni di solitudine piuttosto della loro insostenibile tarantezza dell’essere. Per carità, sono in fondo brave persone, ma i loro tarantismi fanno sì che venga a mancare il priscio fondamentale di avere un collega della tua terra: una sana e rilassante conversazione. Per fare un esempio, il tarantese che è con me in questi giorni appartiene a tre ceppi riconoscibilissimi di tarantismi: 1. U cane mije è bell! Come già sviscerato dal nostro grande Alessandro Guido nell’anonima canzone, il tarantese appartenente a questa categoria tende a paragonare ogni cosa, oggetto, parente della propria sfera con il contendente, ovviamente asserendo che il suo “è cchiu bell!” E’ decisamente logorante avere l’altro fiato a tavola che tende sempre al confronto e al paragone, su ogni singola frase. Unico rimedio, il silenzio. Esempi: T: “Bello il tuo cellulare, fai vedere un po’… Ah si… (con aria di sufficienza e superiorità)… è il modello precedente il mio, che è l’ultimo modello.” io: (che a volte mi applico) “Antò, ma ce sté dic... Vid ca il tuo e il mio sono della stessa generazione, solo che il tuo ha lo sportellino e il mio no!” T: “No, il mio ha la funzione “vattelappesca” che è uscita giusto giusto a dicembre 2006. Questo è l’ultimissimo modello. io: “Sine, sì”!
io: “Non potrò mai scordare quell’aborto di macchina che comprò mio in quegli anni… la Regata! Stava sempre dal meccanico… Solo la Duna era più cessa!” T: “Che dici?!... Io ho avuto una Regata ed andava che ero uno spettacolo! E’ stata una macchina fantastica!” io: “Non avevo dubbi…” 2. I so cchiù brave! Patologia solitamente inscindibile dalla precedente. Il soggetto in questo caso, tende ad interrompere il suo interlocutore mentre sta raccontando un fatto, con l’odioso intercalare: “No, io…” E parte il vanto. Esempi pratici: io: “Mannagghia’mserie! Ma hai viste ce graffie m’hann fatt’ sus u sportell, eppure…” T: “No, io… quando parcheggio, sto attento attento e sono preciso. Lascio mezzo metro da una parte e mezzo metro dall’altra!”
io: “Oh, vid a quidd co a motocicletta! Na passeggiat s’ sté fac… Sareb..” T: “No, io… stav già su na rot!” io: (guidando l’auto a nolo in comune) “Oh, micidial ‘sta machn, ten na ripresa forte forte. Peccato però che il cambio e nu poco lento e impreciso…” T: (guidando la stessa auto, sforzandosi di cambiare SEMBRE e solo con UN dito..) “Na, vedi… entrano sole sole le marce…” io: “Si, a Taranto mi sono trovato qualche volta in situazioni difficili per strada, ma non ricordo mai di aver fatto a mazzate…” T: “No, io… da giovane agghie dat’ mazzat pur’ a u Messican!” 3. Accom’ dic’ije è! Questa patologia è decisamente più odiosa ma purtroppo più diffusa delle precedenti. Innumerevoli sono gli intercalari con il quale il tarantese lascia intendere che sta per proferire il Verbo, la sacrosanta e inconfutabile verità. “Vid ce to stoch’ a dich’ ije d’aqqua…” “Mò, sind’ammé...” “Devi sapere…” “Attenzione! Non è così…”! Conclude poi con: “…hai capito?!” Oppure, in maniera più decisa: “Accussì è, accom dic’ije! E Avast’!” accompagnando le parole con un gesto ampio del braccio con la mano di taglio, per troncare ogni eventuale replica. Quello che spaventa è l’assoluta certezza delle loro affermazioni. Non c’è posto per il dubbio nella loro vita. Il fatto più odioso è che, solitamente il tarantese malato di questo male, tende a voler dimostrare di sapere tutto su tutto, anche quando non sa un’emerita mazza su niente. Anche la mimica gioca un ruolo importante. Per esempio, mentre enuncia la sua verità, il mio tarantese acquista un atteggiamento da docente universitario. Poi, proferita la sentenza, la sua bocca si chiude a culo di gallina, il suo sguardo punta verso il basso a seguire le mani che giocherellano sul tavolo e con le sopracciglia inarcuate verso l’alto. La frase che si legge sul volto è: “Madò, c’agghie ditt’ mò!” A me, spesso dispiace infierire, e solitamente mi arrendo con il mio solito “Sine, sì”!
Esempi: io: “Certo, proprio bella la volta in pietra di questo ristorante. Chissà se è quella originale, e che…” T: “Attenzione! Vedi che questo è tutto cartongesso, fatto sicuramente in questi anni…” io: “Anto’, ma ce stè dic… questo forse è addirittura del 1500!” T: “Assolutamente. Vedi il palazzo affianco, lo vedi che è completamente diverso…” Per la cronaca. Io ho lasciato più volte cadere il discorso per non infierire, fino a che ha voluto chiedere al proprietario. 1500! (dopo aver visto 300, il famoso film su Leonida) io: “Certo che chissà come cacchio facevano, i generali a quei tempi, ad impartire ordini e strategia in una battaglia di migliaia e migliaia di soldati, con distanze a volte di chilometri tra plotone e plotone…” T: “Ovvio, no? Con le bandiere! Hai mai visto l’Ultimo Samurai… così facevano! Stai sicuro!” Io: “Ce centran’ l’ samurai con gli antichi greci… io sto parlano di battaglie del periodo ante Cristo…” T: “Eppiccé? I samurai non sono della stessa epoca?!!! io so che…. bla bla bla… Io: “Sine, sì!” |