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sabato 18 maggio 2024
 
 
Play Taras
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PlayTaras

A cura di Antonio "Nux" Spina

Con contributi di Tonino "Gesucristo" Caso e Michele "Ajatta" Picardi

Tempi di oggi, tempi di PlayStation….scuriscimiento elettronico dell'industria dei 'media', finto divertimento per persone sole ca studichiscene pe passa' u tiembe, e peggio ancora se sono bambini. A loro e ai loro genitori proponiamo i giochi che una volta si facevano per le strade di Taranto: rigorosamente in strada o nei cortili delle case, che non erano ancora invasi dall'asfalto e dalle macchine. In quegli spazi sporchi aperti e pieni di luce ci si trovava in gruppi a imparare in fretta il linguaggio cozzaro, a menare mazzate e soprattutto prenderle.
Alla fine nessun rimpianto: evitiamo solo di perdere la memoria, perche' quegli spazi, quella polvere, quei giochi servono ancora….

 

MANUE' ZZOZZO'


Si giocava per strada a ridosso di muretti o appoggiati ad un muro.

Il numero dei partecipanti doveva essere il più alto possibile.

Si iniziava con il solito TUEKKE con tutti i partecipanti a giro, quindi i compagni venivano SKACCHIATI in modo alternato e, coloro che uscivano dalla conta S'AVER-N 'A METT-R SOTTE piegati in avanti, UNE 'NGULE ALL'OTRE. A seconda dei partecipanti, si potevano creare delle code lunghe anche una diecina di metri.

'U PRIME CHIUMME iniziava quindi a saltare in groppa ALLE SOTTE con una lunga rincorsa, in modo da potersi sistemare il più avanti possibile. E così via sino a che tutti I CHIUMMI si erano posizionati sopra.

A questo punto iniziava la gara, quelli di sopra, abbrancati uno con l'altro, per non cadere,

gridavano MANUE' ZOZZO', pes'u chiumme si 'o no?! E quelli di sotto, se riuscivano a sopportare il peso rispondevano NONE!

Si andava avanti così sino a quando o quelli di sotto SCUNUCCHIAVENE e quindi dovevano

risopportare 'U CHIUMME oppure quelli di sopra non riuscivano a mantenersi in equilibrio e bastava

che uno solo toccasse terra con un piede, che le parti si invertivano.

Un gioco molto semplice ma a volte faticoso.


GIOCO DELLA "LIVORIA"

E' un gioco pare importato dagli Spagnoli verso il 1400.

A Taranto si è giocato sino agli inizi degli anni 50, quando vi erano ancora alcuni spazi non bitumati.

Si gioca in due o multiplo di due e gli attrezzi sono:

Doje padde d'acciaje (il peso ottimale è 250 gr.)

Doje palette de faggje

A scigghie.

La paletta è a forma di mannaja di macellaio (quella per rompere le ossa), consumata alla base dalla parte interna, in modo che si possa piegare per poter bene spingere a palle de fijrre nelle varie fasi del gioco che spiegherò più avanti.

A scigghie , di ferro, è a forma di anello, saldato su un punteruolo pure di ferro, lungo almeno 10 cm, che serve per inchiodarlo a terra.. Da un lato è crociato molto fitto e si chiama a vocche (la bocca) e serve per l'entrata della palla, ppe' fa le punte, il lato opposto è poco crociato ed è la parte ""sudicia"", u cule, per cui se la palla entra, si perde un punto.

La stessa si infila nella terra che deve essere abbastanza dura. Naturalmente così facendo a scigghie non girerebbe liberamente, quindi una volta infilata, la si estrae e se mene 'n'a sputacckhie nel buco per renderlo lubrificato. Infatti reinfilato il cuneo nel terreno e dando un bel colpo al lato dell'anello, questo gira come una trottola.

 

Si gioca su un terreno abbastanza liscio, a tawule, (tavola) e, dopo aver fissato il punteggio necessario alla vittoria, solitamente a 21 punti, il gioco inizia con il solito tuekche e il primo designato a lanciare la palla che deve essere appoggiata sulla paletta e tenuta con il pollice, disegnata una striscia a circa 15 metri dall'anello e che delimita l'area di gioco, a menata, lancia la palla in direzione dell'anello con l'intento di farla entrare subito attraverso l'apertura pronunciando la frase di rito:

 

ponn' ije e vinghe a partite. Nel senso che se la palla entra direttamente nel 'a scigghie la partita è vinta.

 

Se la palla non è entrata nell'anello, tira il secondo, pronunciando a sua volta la frase : ponn'ije e n'agghie doiie , quindi se la palla entra, il tiratore guadagna due punti. A questo punto a turno si cerca di far entrare la bilia nell'anello, usando i vari sistemi. Se la palla dell'avversario dà fastidio allora con la propria palla si cerca di allontanarla, spesso si fa nascondere la propria palla all'occhio dell'avversario con la bravura dettata dall'esperienza di gioco, per cui bisogna giocare list' (svelti) con piccoli tocchi, senza accompagnare la palla con la paletta.

 

I giocatori provetti, sono in grado di colpire la palla dell'avversario, quando questa si trova oltre l'anello . Il nacc'hr' consiste in colpetto che allontana la palla avversaria dall'anello, quando si riesce a spostare la palla dell'avversario dall'anello, facendo prendere il posto alla propria allora si dice nacc'hr e punte.

 

Quando la palla riesce ad entrare nel cilindro si segna un punto. Se capita che la palla dell'avversario sia ad una distanza ottimale (10 o 20 centimetri) in direzione della menata, allora si batte il cave, cioè spingendo la propria palla su quella dell'avversario, con una certa potenza, si cerca di farla arrivare oltre la linea di partenza con la dicitura cave, ci mandene è fatte. ('cave' dal latino ' guardati ') io tiro, se la palla viene toccata durante il percorso io realizzo lo stesso il punteggio (due punti). Se invece va tutto liscio e la palla oltrepassa la linea vi sono i due punti regolamentari.

Se la palla entra dalla parte sudicia, l'avversario pronuncia: cule, per cui si perde un punto e non si può fare altro che farla rientrare dalla vocche pronunciando. Pesc'cule. Può capitare che durante il gioco una palla si trovi adiacente alla scigghije e chi deve tirare, ha la palla immediatamente poco distante, e in direzione della menata il giocatore che deve spingere la palla dell'avversario con il cave prende la mira e dice: cave da 'ngule tre punte puppù quindi tira, se la palla dell'avversario esce dalla menata allora si realizzano i tre punti, anche se la propria palla entra da cule.

 

Se durante il gioco la palla viene toccata da qualcuno, l'avversario pronuncia la frase nno' ppue' caca' significando che non si può fare alcun gioco, ma solo ritoccare la palla con la paletta pronunciando la frase pozze piscia'.

Esiste una fase chiamata Scippe Carduccie. C'entra in questo qualche antenato della famiglia patrizia dei Carducci, forse poco esperto giocatore, che mirando al passaggio della palla nell'anello, urtava contro la semicirconferenza del ferro e cambiava la posizione della vocche, che restava così sino al colpo di raddrizzamento.

Durante il giuoco esiste la fase di licenze d'a muscetìje (permesso di pulire il terreno avanti la palla, durante il suo cammino.

 

Alcune espressioni che sono rimaste:

 

C'entre padd' palétte e livorie (dicesi di oggetto molto largo)

E' cave de 'na palette (qualcosa di facile comprensione)

Sciucame list' (siamo sinceri)

 



 


 

U' spezzidde, il cui nome credo, ma mi posso sbagliare, dovrebbe la propria origine dal pezzettino di legno levigato a barchetta biconvessa che diveniva per la forma assunta facilmente elevabile in aria dall'apposito legno lungo impugnato ed usato dal giocatore, che prima batteva verso terra appunto lo spezzidde e una volta fattolo roteare per aria tentava di colpire al volo il legnetto tentando di

dargli la voluta direzione.

Doveva essere un gioco per bimbi, in quanto ricordo che gli adulti,

quando volevano togliersi di torno un bambino, gli dicevano, con aria

di superiorità e supponenza: Và sciueche o' spezzidde.

 


 

 


 

Si giocava su terra battuta.

Prima di tutto si disegnava il cerchio ('u turnijdde) appunto.

Ci si piantava col tacco della scarpa sulla terra, e con una monetina di dieci lire (tanto era apunto l'importo con cui si giocava) stretta tra indice e pollice e pressata sul lato sinistro della scarpa, dalla parte delle dita, si faceva una torsione a 180 gradi, e la bravura era appunto a disegnare nu' turnijdde 'a mestiere.

Si faceva il solito "tueccke" e a turno si cercava di lanciare la monetina da dieci lire nel cerchio o quanto più vicino al diametro dello stesso. Il lancio della monetina era una vera professionalità.

Si piegavano le dita in modo che il pollice toccasse il medio (potete provare a farlo), quindi si inseriva la moneta che poggiava sul medio ma veniva compressa dal pollice verso l'indice, quindi con un gesto da mestre si sganciava il pollice a mo' di molla lanciando la moneta verso 'u turnijdde.

Chi entrava nel cerchio e quindi chi andava più vicino al centro o se nessuno entrava nel cerchio, toccava a chi arrivava più vicino alla circonferenza a spuzzta'.

Allora, chi nel cerchio era più vicino al centro, già prendeva tutte le altre monetine all'interno, quindi cu 'nu tippte cercava di fare entrare le monete dentro, le quali diventavano sue, altrimenti la mano passava al secondo e così via.

 





'U SCIUEKE DA' STACCH(E)


Gli attrezzi erano 'a stacch appunto che era un pezzo di marmo più o meno rotondo dai 10 ai 12 cm diametro; un altro pezzo di marmo a forma di parallelepipedo avente una altezza di 5-6 cm chiamato boccino.

Si poneva il boccino ad una distanza di 10-15 metri. Si posavano sul boccino a mo' di pila i soldi che si decideva di puntare, tanto a testa (si parla di monete da cinque o dieci lire), si faceva il solito tuekke e si tirava a turno.

Ovviamente ci voleva maestria nel tirare, in quanto si doveva colpire il boccino cercando di far cadere le monete il più vicino possibile alla propria stacchia (questa volta lo dico in ITALIANO) senza farla rotolare, per cui i più bravi la forgiavano a mo' di pera e quindi la stessa strisciava bene sulla terra battuta.

Come il gioco delle bocce, chi seguiva nel tirare cercava di scostare le stacce degli altri in modo di avvicinarsi ai soldi già caduti per terra.

Quando tutti avevano finito di tirare ognuno prendeva le monete più vicine al proprio strumento.

E si continuava sino a che non si finivano i soldi.

Inutile dire che io modestamente non perdevo mai….



U CURRUCHELE (CURRUK'L) Michele Picardi


Negli anni 50 quando a Taranto le macchine che circolavano erano poche e per sostare si aveva a disposizione tutto il marciapiede da un angolo all'altro, i ragazzi facevano largo uso di questa trottola con grande abilita'.

Il gioco consisteva nel far girare con una corda che se non sbaglio si chiamava "cuenze" u proprie curruk'l , prenderlo sul palmo della mano mentre girava, colpire il curruk'l dell'avversario che stava sotto e cercare di spingerlo verso il marciapiede opposto, se il proprio curruk'l si fermava,"squaquagliava'' prima di aver colpito l'avversario si andava sotto,

chi rimaneva sotto alla fine del gioco pagava la puntata che consisteva in un certo numero di "azzugnate" colpi dati sul curruk'l del perdente con la punta di ferro del proprio . Grande soddisfazione era per i giocatori vincenti riuscire a spaccare u curruk'l del perdente.

Generalmente ogni giocatore aveva tre tipi di curruk'l, uno di faggio perfettamente bilanciato per girare con la massima cura era quello che si usava per giocare piu costoso di quelli per ricevere l' azzugnate di legno piu tenero, c'era poi u curruk'l per dare i colpi al quale si modificava il ferro per renderlo piu micidiale nel dare l'azzugnate.

 

Cari amici stasera sono tornato indietro di piu' di quasi mezzo secolo quando tiro il mio vecchio currucolo di faggio per i miei nipoti abili giocatori di videogame e lo prendo sul palmo della mano mi guardano stupiti e ammirati quasi che fossi un giocoliere. Quando poi me lo passo da una mano all'altra senza farlo fermare, allora poi vogliono provare ma e' difficile l'arte del lancio du curruk'l, e se non si e' fatta la gavetta nelle strade du borgo facendo attenzione che la trottola non finisse ind' a nu chiusine o mienz a cacate de cavalle, ed e' certamente difficile farlo girare correttamente.




U ZIPPERE Michele Picardi


Quando le vie del borgo non erano invase dalle automobili e le panarijdde erane le padrune da vie

dopo le giornate di pioggia si era soliti fare un vecchio gioco che credo, (se la mia memoria ormai in disarmo non mi tradisce) s'annumnave " U ZIPPERE"

 

Perche' dopo le giornate di pioggia? Perche' il luogo della disputa che si giocava tra vari ragazzi era il cerchio di terra umida e cretosa che veniva lasciato libero dagli alberi mancanti nelle strade di Taranto. Io ci giocavo in Via Dante.

 

Lo strumento del gioco era una grossa lima da fabbro o una vecchia raspa da falegname, scopo del gioco era quello di conficcare la lima nella terra umida facendola appoggiare su varie parti del corpo e da quel punto farla piroettare e conficcare nella terra; si cominciava dalle dita della mano e poi si passava alle parti del braccio, gomito, spalle e altre parti del corpo, bisognava avere una buona abilita' e allenamento.

 

Chi sbagliava non facendo conficcare la lima passava la mano e nel prossimo giro doveva ricominciare, chi invece concludeva per primo il gioco si autoescludeva e aspettava chi rimaneva piu' indietro nelle varie mosse; il perdente del gioco era quello rimasto indietro che non aveva concluso le varie mosse. Questi doveva pagare una penitenza che consisteva nell'estrazione con la bocca e i denti di un ramoscello di legno che tutti i vincitori conficcavano nella terra del cerchio; va da se' che tutti cercavano di conficcare "U ZIPPERE" il piu' possibile per dare modo al perdente di assaporare la terra .

 

Non mancava naturalmente da parte dei piu' dispettosi na "scrafagnata" sulla testa del malcapitato per fargli gustare meglio la terra, e allora poi la rissa era certa.

 

Scusate se mi sono sbagliato nella descrizione o nel titolo del gioco ma purtroppo non lo pratico piu da circa 50 anni. Mi piacerebbe vedere se non ho perso la mano….. ;-))

 

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L(E) SETT BUCH(E)

 

O 30cm O O

 

O

 

O O O

 

Sempre su terra battuta, si scavavano sette buche come nel disegno, aventi un diametro di 10/15 cm.

Ogni giocatore (7) si posizionava dietro una buca ed un ottavo " A MAMMA" era incaricato far scorrere una "pall de pezze" (che si costruiva con carta avvolta in calze vecchie, con un procedimento

tutto particolare) in una di dette buche.

" 'U padrune " della buca ove la palla entrava doveva immediatamente "pigghià a pall" e cercare di colpire uno dei rimanenti sei che nel frattempo correvano via velocemente.

Chi veniva colpito doveva a sua volta raccoglierla e cercare di colpire un altro, e così via sino a quando non si sbagliava. Chi non riusciva a "accogghiere nisciune" veniva penalizzato da 'a mamma

che metteva un sassolino nella sua buca.

Si andava avanti così sino a quando " nu' padrune nno' teneva 'a buca chiene de sette petre " quindi diventava " 'u sotte "

Ovviamente quando qualcuno già aveva tre o quattro "petre" nella buca si faceva il gioco di squadra con passaggi "da nu padrune all'otre" sino a colpire quel disgraziato il quale faceva di tutto per non prendere altri colpi.

Finito il gioco, si bagnava " a palle de pezze " e, se c'era acqua bene, altrimenti si usava " altro liquido" e ognuno era autorizzato a colpire "'u sotte ca se metteve appuggiate 'a nu mure cu 'a spadd 'anuda " sette volte meno le pietre della propria buca.

Se qualcuno colpiva " 'u sotte " alla testa, veniva punito diventando a sua volta "sotte", con il doppio dei colpi rimasti ad ognuno, e così via sino ad esaurimento dei colpi.

Ovviamente il furbetto che mirava basso, per non colpire la nuca, se non colpiva "'u sotte" almeno alle gambe, i colpi li pigliava lui in egual misura.

Sicuramente alla fine eravamo tutti zozzi e doloranti per le pallate ricevute.

 

 

 

 


Ci si riunisce in gruppo, si stabilisce il quantitativo di bottiglie di Birra da giocare ogni giro, si procede alla conta - 'u tuekke -
il primo della conta viene scartato, il secondo diventa "" 'u padrune "", il terzo "" nijende "", il quarto " 'u sotte ". " 'u padrune "" ha diritto di bere quanta birra vuole. Quindi in un giro, può capitare che se 'u padrune è in grado, beve tutta la birra in gioco e tutti gli altri rimangono all'asciutto "" all 'urme "". " 'u padrune "" può decidere di offrire da bere a qualcuno che gli è simpatico, in questo caso deve chiedere il permesso a " 'u sotte "" il quale può dare il consenso o meno. Se dà il consenso allora il prescelto beve, altrimenti " 'u padrune "" o beve lui oppure fa un'altra proposta. Se " 'u padrune " propone di offrire da bere a più di uno, " 'u sotte " potrebbe negare la bevuta ad uno ed acconsentire la bevuta agli altri, perché " 'u padrune " ha dimenticato di pronunciare la frase " se va a uno, va all'altro" - in questo caso se " 'u sotte " acconsente, tutti quelli indicati da " 'u padrune " sono autorizzati a bere, altrimenti si va avanti. In poche parole il padrone ha diritto solo di bere, altrimenti è sempre soggetto al sotto. A fine gioco, dopo molti giri e moltissime birre, le stesse vengono pagate da tutti in egual misura, per cui potrebbe capitare che se qualcuno " 'à sciute all'urme " paga senza aver bevuto.


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    • Dal digitale alla "fuzzy logic" ovvero dall "0/1" al "po' v'dim"
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    • "No' je semp'fest'a Palasciano" - Panorama delle manifestazioni penitenziali joniche
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    • Se scappi ti prendo - girato ai tamburi
    • La grande fuga della malombra rossa - con Sean Connery che interpreta Cicce u Gnur
    • Casabianca (località in zona Gandoli)
  • Personaggi di quartiere  ( 2 oggetti )

    Personaggi di Quartiere

    Personaggi che si aggiravano per i vari quartieri i cui nomi o soprannomi venivano a far parte dell' immenso e straordinario vocabolario delle parolacce e insulti del tarantino medio.

    • La Pompa-Pompa (Tamburi):

    mai saputo il suo vero nome. Quando ero piccolo aveva gia' cira 40-50 anni. Nota prostituta non piu' in servizio (non ne ero certo). Alcuni bambini, non sapendo che fosse un soprannome la chiamavano Signora Pompa-Pompa. Spesso negli insulti il termine "figlia della Pompa-pompa" si sostituiva al termine "zilatona".

    • Giuann Panocchia (Paolo VI):

    Si aggira per Paolo VI imprecando contro tutti. Ha una giacca chiusa da una centinai di spille da balia anziche' da comuni bottoni, e porta sotto la giacca (e un po' dove puo') un numero esagerato di "chiangoni" che lui minaccia sempre di scagliarti addosso. Ha il viso molto deformato e tumefatto. Per quest'ultimo motivo chiunque si procura un normalissimo ematoma al viso diventa "Giuann Panocchia" per un po'.

    • Francucch Mill-Lir (Tamburi):

    Pace all'anima sua. Notisso spacciatore tossico-dipendete perennemente alla ricerca di soldi. La sua frase di battaglia era: "EH .. m' ah da' Mill-Lir!?". Se quindi qualcuno chiedeva soldi in prestito diventava automaticamente un "Francucch Mill-Lir".

    • Cicc' u Gnur (Taranto-Vecchia):

    Mio padre scherzando diceva che era parente del famoso attore Franco Nero. Io ero piccolo e un po' ci credevo.

    • Rigge (??):

    Ridge di Beautiful!! Non c'entra niente lo so !!! Mia nonna non puo' fare a meno di distorcere i nomi di Beautiful, anzi Tittifull, come direbbe lei.

    • Cinzella:

    Essa merita sicuramente un posto nella agiografia della nostra città per aver contribuito alla iniziazione di innumerevoli adolescenti ai piaceri della vita e per aver offerto ai tanti stranieri una visione assai accogliente della nostra città. Non era solo un rapporto mercenario; se così fosse stato, il nome di Cinzella non sarebbe ancora oggi ricordato con affetto e nostalgia da tutti coloro che, ebbero a condividere con lei l'estasi sensuale del rapporto con l'eterno femminino.... no, Cinzella era la suprema sacerdotessa di un dionisiaco rito pagano, come la Bocca di rosa di Deandreiana memoria lei metteva nella sua opera un impegno ed una passione degna di miglior causa, tali da farla quasi diventare un simbolo, un icona, un limite a cui molte oggi asintoticamente tendono.
    A noi che la conoscemmo non resta che rimembrare quelle sensazioni, che non erano ancora amore ma non erano solo sesso e rimpiangerla con nostalgia, come per la bottiglia di Raffo collo corto.

    • Rosina a scapulauagnun:

    come Cinzella ma meno popolare

     

    • Timoteo:

    Periodo di riferimento:anni 60/70, Soprannome:Timo
    Il personaggio era solito passeggiare per via D'Aquino, ogni volta che incontrava nu piccione, gli dicevano:"Uè Timò, falle vedè a pizz'..", E Timo faceva finta di niente, fino a quando non arrivava alla SEM, si abbassava i 'pantaloni, per mostrare la pizz, lucculando:"Awwandate, Awwansate tutt'cose..".Da cui Il soprannome:"Timo falle vedè a pizz!!!" Si racconta che ogni volta che il gestore della Sem lo vedeva avvicinarsi gli prendeva un colpo!

    • Antonie u spustate

    Anni '30/40. Venne definito "spustate" perchè, in pieno solleone, oleva indossare tutto il guardaroba invernale contemporaneamente. Asseriva che la sorella fosse stata l'amante del duce e che lo avesse cornificato a gogò. I più sostenevano che fosse affatto savio e
    che si fingesse "falueteche" per poter criticare il regime senza incorrere in ritorsioni.

    • Attilio Tattaratta'

    Anni '50. Appartenente a quella che in altri tempi si sarebbe definita una "buona famiglia",circolava con le tasche gonfie i "stacchie" che lanciava "alle panareddere" che , da debita istanza data la mira micidiale di Attilio, gli indirizzavano feroci sfottò. Si esibiva spesso,se richiesto con modi gentili e dietro modestissimi compensi, nel salto mortale dal bordo del marciapiede al
    sedime stradale.

    • Turuccio

    Anni '50. Frequentava le zone adiacenti la piazza Marconi ed aveva una straordinaria somiglianza, per le dimensioni delle pedagne, per la postura in generale e per la mitezza del carattere (almeno cu nuije sculacchiatidde), con il personaggio disneyano di Pippo. Aveva in effetti l'abitudine di spernacchiare, su richiesta, proprio come se dovesse soffiare in un trombone.

    • Giuanne Portafoglie

    Batteva solitamente l'asse Di Palma, Giordano Bruno, D'aquino rasentando i muri degli stabili, ai quali si appoggiava ogni tre passi circa, esibendosi in fantasmagoriche iaculatorie (arte in cui raggiungeva livelli di virtuosismo mpareggiabile) a causa di un doloroso valgismo alle estremità nferiori (le cepodde 'nzomme)che lo costringeva a strascicare, entopede, gli smisurati fettoni .

    CICCE CAURE
    Era nel suo genere un artista sopraffino. La sua arte consisteva nell’ eseguire con il sedere “arie” celebri. CICCE CAURE era un petomane e le sue esibizioni sonore gli servivano a raccogliere qualche spicciolo per tirare a campare. Famosissima la frase che lo rese famoso: “PICCE’ LE SOLDE AIJERE JEVENE VIJANCHE E OSCE SO’ GNURE?” (perche’ i soldi ieri erano bianchi e adesso sono scuri?) riferendosi al fatto che ignoti gli avevano sostituito le monete d’oro, guadagnate con la sua arte, con volgari monete di ferro e quindi di un colore piu’ scuro. Usavano sfotterlo con la frase “CICCE CAURE, PAGNOCCHELE ‘NGULE!"

    Martin' U' Pacc'
    Siamo intorno agli anni 85/86, zona via Duca degli Abruzzi in fondo verso il lungomare quasi di fronte all'attuale Nautilus (si chiama ancora così?)
    Era leggenda diffusa tra i ragazzini di quel periodo in quella zona; praticamente costui doveva essere una persona abbastanza anziana cù a capa bombe bombe e non tanto normale; la leggenda narra che si aggirava al calare della sera in quella zona verso il lungomare, quando vedeva i ragazzini li chiamava offrendo loro dolci e caramelle (classico!) e poi diceva di volerli portare giù sul lungomare dove aveva una casa costruita in legno e chissà quali orribili nefandezze accadevano!!
    Si narra che una volta avvicinò un gruppetto di ragazzi (un pò più grandi di noi) e questi, riconosciutolo, lo "caricarono" di pietre in testa: inutile dire che divennero i nostri idoli e quando si avvicinava la sera si preferiva giocare "nei dintorni" dove erano loro.

    GASPARE
    Abito blu, perfetto. Scarpe bianche; pettinatissimo. Sfilava per le vie del centro come fosse in passerella.
    Capo dritto e sguardo fisso in avanti. Al massimo gli occhi, si concedevano, faticosamente, deviazioni laterali per scrutare……. Un manichino insomma.
    La mano destra, sempre in tasca faceva da fulcro al braccio, che in prossimità di qualche dolce curva femminile, a mò di ala, si apriva imperioso e nel contempo speranzoso, di affondarsi tra le rotondità piu’ prossime.
    Gaspare era ‘NU RATTUSE!
    La Fissità del suo sguardo derivava anche da una sua costante preoccupazione: ‘U PERNACCHIE.
    Cioè quando il suo passo incrociava quello di alcuni PANARIJDDE, si levava forte da questi un sonoro: GASPAREEEEEEEEEEEEE? PRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR! Che interrompeva il silenzio della via.
    GASPARE, non di buona corporatura, a volte, giusto per far valere il suo orgoglio, pubblicamente ferito, affrontava lo “ spernacchiante” con un virile: T’HAGGHIA FA’ DA’ MAZZATE!, demandando evidentemente a terzi piu' abili, la tenzone.
    Veniamo alla sua frase storica.:EHI! CA’ ‘NA MANE HAGGHIE MENATE!
    …Siamo in un cinema, una coppia amoreggia, il Nostro, con un’abile mossa di avvicinamento, si siede al fianco della donna, e approfittando della concitazione, le infila una mano sotto la gonna.
    Intanto, il ragazzo della stessa, intento nella stessa manovra, casualmente, ravanando tra le eburnee colline, incrocia con le sue mani quelle del Nostro.
    Bah! CE' SUCCEDIJEEEEEEEEE! Il giovane si alzo’ di scatto, sollevò di peso il GASPARE e lo “crepentò” letteralmente di mazzate, lasciandolo esanime sul pavimento.
    Al suo risveglio, esclamo’ la storica frase di cui sopra!

    BIACOCCHE
    A Taranto per indicare ancora una persona un pò svanita si usa dire, appunto, BIACOCCHE.
    Il Nostro, era solito ubriacarsi con una frequenza impressionante che unita alla sua dabbenaggine lo trasformava in una macchietta irresistibile.
    Si racconta che, una volta, a causa dell'ingestione di fagioli poco cotti, venne colto da dolori cosi' lancinanti che lo condussero alla convinzione che la sua ora fosse ormai suonata.
    Allora si recò al camposanto e si infilò in una fossa, continuando a lamentarsi per i dolori addominali, tanto da attirare l'attenzione del guardiano, il quale, palesemente spaventato, si avvicinò alla fossa urlando: CHI E'?
    BIACOCCHE credendosi gia' morto, gli rispose: CE' TE STE' 'NGAZZE? JE, SO' L'ANEME DE BIACOCCHE!
    suscitando la legittima ira del guardiano che per un pelo non lo ammazzava davvero.

    MARCHE POLLE
    MARCHE POLLE, ritengo sia il piu’ importante tra i personaggi di Taranto.
    AMEDEO ORLOLLA di Giovanni e Angela Portulano è nato a Taranto il 27 Agosto del 1895 ed è passato a miglior vita il 12 gennaio del 1982.
    Chi non lo conosceva?
    Il suo soprannome derivava dal fatto che il padre fosse imbarcato sulla nave MARCO POLO, le cui gesta, Amedeo, non si stancava mai di narrare.
    Svolse i lavori piu’ umili, dal garzone di fornai e carbonai, a venditore di girandole colorate. Ma l’immagine che io ho di lui è quella che lo vedeva col suo mitico berretto da panarijdde cresciuto, la giacca, un paio di misure piu’ larga e pendente da un fianco, l’immancabile sigaretta tra le dita che raccoglievano un “ammuzzo” di buste gialle contenenti delle schedine della SISAL, gia’ compilate, che vendeva ai passanti.
    La sua frase storica era: ‘A VUE’ MO? (la vuoi adesso?) accompagnato dal suo dolce e impertinente sorriso “sgangate”, e che sottolineava l’evidente doppio senso della stessa, specialmente se espressa in presenza di una donna. MARCHE POLLE era amato da tutti, e chi lo incontrava per strada, specialmente negli anni della sua vecchiaia (ha venduto schedine fino a 80 anni) lo prendeva sottobraccio e piano piano lo portava nel bar piu’ vicino per offrirgli da bere o qualche sigaretta.
    Era il sorriso della città. Un’altra sua frase celebre era: APPUENDETE ‘NNANDE! (abbottonati avanti) accompagnata da un gesto che induceva il malcapitato a dare un’occhiata alla braghetta del suo pantalone presumibilmente aperta.
    Ovviamente, nel 90% dei casi la braghetta era chiusa e la cosa si risolveva con un sorriso rompighiaccio che lasciava spazio alla proposta di vendita ufficiale:A VUE’ MO?.....'A BUSTE?
    Al funerale di Amedeo, nella chiesa di San Francesco da Paola, partecipo’ tutta Taranto che accompagno’ la sua ultima passeggiata per la città tra le note delle marce funebri della Settimana Santa.
    Al cimitero San Brunone, dove è sepolto in una cappella comunale, dinnanzi alla sua foto si trovano immancabilmente delle sigarette che i passanti lasciano teneramente.

    PEPP' A RACCHIA
    Si raccontava di lui che fosse sposato e con figli, poi una volta separato dalla moglie decise di dare appieno la sua effeminita’.
    Abitante nella Citta’ Vecchia, ma assiduo passeggiatore nelle vie centrali di Taranto, sempre molto elegante e distinto, ostentava il suo essere con disinvoltura, ma senza escandescenze particolari, molto rispettoso e rispettato.
    Nonche’ frequentatore di cinema “under ground” dove cercava di recuperare qualche preda atta a garantirgli le ore liete serali.
    Si suppone portasse una parrucca dai capelli lunghi e riccioluti, ma non era molto rilevante la lunghezza dei capelli, d’altronde era il periodo dei capelloni, ma di sicuro il termine “ a’ racchia “ derivava dalla sua ... diciamo cosi’ ... non bellezza.
    Famosa era la battuta che girava tra i maschietti dell’epoca che se a qualcuno veniva l’infelice idea, per gioco chiaramente, di dare la manata sul culo di qualche amico, riceveva per risposta un: "ce’ssi’ Pepp’a’ racchia? ... a’ ce’ cinema a’ sce’? "
    La battuta era data scherzosamente ad intendere di sapere ove andasse lui, in modo da evitare di visitare lo stesso cinema.
    Una volta ci capito’ di incrociarlo sul Ponte Girevole, era diretto verso il centro e noi verso la Citta’ Vecchia, ... eravamo io e Michele (uno dei miei soliti inseparabili amici) su di un Motobecane sfiaccatissimo che a stento riusciva a trasportarci ...
    proprio sulla parte in salita del ponte ... beh, ... Michele ebbe l’infelice idea di gridare le testuali parole: “ Ue’ Pepp’a’ racchia ... a’ ce’ cinema a’ sce’? ...” ...
    Ci fu’ una specie di inseguimento ... lui correndo dietro di noi fingendo di volerci acchiappare, ... Michele che pressava sui pedali del motorino per aumentarne la velocita’, io alla guida che a gambe divaricate cercava di mantenere l’equilibrio ... dietro di noi la sua voce effeminata che strillava ... " ce’ v’azzecche ... v’hagghija da’ mazzate! “ ....

    PURGENELLE
    PURGENELLE lo traggo da un libro di Nicola Caputo, Investivamo alla marinara.
    Vestito da Pulcinella metteva in mostra la sua arte all’angolo di via Crispi con via Di Palma, il suo nome era SAMUELE e quello del suo compagno di scena, un vispo cagnolino, era FASULINE.
    La coppia SAMUELE e FASULINE rallegrava i passanti, che gli offrivano qualche spicciolo.
    Lui scimmiottando Pulcinella e il cagnolino facendo acrobazie spericolate che andavano ben oltre il camminare tenendosi dritto sulle zampe posteriori.
    I suoi spettatori piu’ assidui erano i militari in libera uscita e i panarijdde.
    Di SAMUELE e FASULINE parla anche GIACINTO PELUSO che lo ambienta pero’ nella città vecchia e lo raffigura con una bombetta che ci fa pensare ad un personaggio differente dal Pulcinella. Lo stesso ci informa che SAMUELE trasferì al borgo il suo spettacolo in quanto in quel periodo il boom dell’arsenale militare lo faceva sperare in migliori guadagni.
    SAMUELE fini’ a chiedere l’elemosina.
    Ancora oggi, a Taranto, per sottolineare la stretta amicizia tra due persone si usa dire: FA CA SITE, SAMUELE e FASULINE!

    PIPIELE
    : era conosciuto per la sua non eccelsa intelligenza che faceva il paio con una personalità sempliciotta. Il suo mestiere era 'U CITREDDARE, cioè coltivava le ostriche nei citri presenti nel nostro mare.
    Era riuscito a fidanzarsi; e da quel giorno, girava per la città "lucculando" PURE JE TENGHE 'A ZITE!
    Un giorno la sua "zita" gli preparo' una focaccia che lo stesso portò sul posto di lavoro. I compagni, per scherzo gliela fecero sparire e da questo episodio nacque una canzoncina, come ci racconta Enzo Risolvo:
    PIPIELE 'U CITREDDARE.
    FATIAVE A LE CITREDDE;
    IND'U VICHE D'U SPIRETE SANDE
    SE TRUVO' 'NA CARA AMANDE;
    'A ZITE L'HA CHIAMATE,
    E L'HA DATE 'NA CAZZATE;
    JEVE CARECHE DE LUATE,
    E ALL'AMICHE L'HA MUSTRATE,
    CA SE L'HONNE PO' MANGIATE!

    (Pipiele che lavorava nei citri;
    Nel vicolo dello Spirito Santo,
    trovo' un' amante.
    Lei lo chiamo' e gli diede una focaccia;
    che era piena di lievito,
    e che agli amici lui mostro'
    i quali, poi se la mangiarono)

    U' NEGUS
    : Vecchio birbante, girovago con il suo pendolio a gambe divaricate, ciccione di “birra Raffo” sua prediletta compagna.
    Raccoglieva di tutto, trovato molte volte immerso nei cassonetti dei rifiuti a recuperare qualcosa che per lui ... “po’ sembre servi’ ...”
    Vestito sempre da quattro stracci altamente impuzzoliti, era “ospitato” gentilmente nel giardino delle palazzine della Marina Militare di Via Magnaghi, ove per casa aveva un rottame di macchina abbandonata da qualche inquilino, e li’ aveva fatto sorgere, nell’angolo piu’ remoto del giardino stesso, una sorta di capanna con teloni a proteggersi dal sole o dalla pioggia.
    Dalla voce stridula, molto scuro di carnagione, cu’ na capa grossa grossa.
    Giorovagava tra le traverse di via Magnaghi e via Cugini, via Messina e Battisti, ma tutto limitato tra via Millo e via Quinto Ennio, e sovente bazzicava a Piazza Icco per racimolare qualcosa da mangiare.
    Famosa la sua battuta nel passare tra i vari locali delle attivita’ artigianali e non, chiedendo: “t’avanze quaccheccose?” (ti avanza qualcosa?) in modo tale che la sua disponibilita’ nel ripulire da cose inutili, gli garantisse la sua Raffozza da portarsi a passeggio in bella mostra mentre la sorseggiava.

    FENANICCHIE: "Va tagghiete le capidde ca' pare Fenanicchie" è un'espressione che sta ad indicare che i capelli hanno ormai raggiunto una lunghezza tale da rendere necessario l'intervento del barbiere.
    Ma veniamo al nostro. FENANICCHIE era un fabbro di nome Angelo che spesso e volentieri alzava il gomito. Ma era conosciuto per un'altra sua caratteristica cioè per i suoi lunghi capelli neri che trattava con ossessiva cura.
    Motivo di questo suo narcisismo era la convinzione che la sua scura capigliatura potesse fargli conquistare il cuore di qualche donna bella ma principalmente ricca.
    Ma lo scorrere inesorabile del tempo non faceva altro che far sfiorire la bellezza della sua criniera e con essa il suo sogno d'amore.
    La bottiglia diventava sempre piu' la sua inseparabile compagna e le "panareddere" (ca no' lassavane de pede a nisciune) lo esortavano ormai da tempo a rinunciare alla ricerca del ricco matrimonio dicendo: "Capacete Fenanicchie, no' jè pe tè!"
    Fenanicchie invece continuava a curare la sua capigliatura ormai ingrigita con ostinazione fino al momento in cui decise di arrendersi definitivamente all'evidenza esclamando la frase: "S'ha capacetate Fenanicchie"
    Il motto finale viene ancora usato oggi, per far mettere l'anima in pace a chi cerca di ottenere ad ogni costo un risultato che non potrà ormai piu' ottenere spronandolo nel contempo ad accettare con rassegnazione la dura realtà.
     
 
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