Con la sua estrema discrezione il vecchio Archie mi informò che uno
degli invitati, persona di spicco tra le autorità presenti il cui nome
taccio per carità di patria, invece di brindare “sursum corde” con la
Raffo di ordinanza, aveva celebrato l’evento con una misera “Tourtel”.
Rimasi
basito di fronte a tale iconoclastia e quasi senza rendermene conto
esclamai <<Pure a mugghiere d’u sinnache ha scivulate!>>
(Anche la moglie del sindaco è scivolata!), ricevendo subito dopo una
silente richiesta di chiarimenti da parte di Archibald, che non
riusciva a credere di dover includere tra le appartenenti al sesso
femminile anche il corpulento partner della signora Di Bello, attuale
primo cittadino di Taranto.
Al fine di evitare la propalazione di pettegolezzi di bassa lega e di
permettere all’onusto Archibald una sempre maggiore conoscenza delle
sfumature della nostra lingua, mi risolsi a illustrargli
immantinentemente l’arcano consultando, senza por tempo in mezzo,
l’agile volumetto “Tra moglie e marito io faccio lo zito – Memorie di
uno scambista di coppie” del tunisino Maquannè Kalloshanammashè
(Biserta, 1887 – Lussazioni multiple riportate durante le finali del
XXVII° campionato di “Kamasutra acrobatico – classe free style -
categoria Seniores”, 1938) che illustrava alla perfezione l’espressione
da me citata, dandone inoltre una precisa esegesi.
Racconta infatti il Kalloshanammashè che durante il periodo quaresimale
di molti anni fa, convenne in Taranto un frate predicatore proveniente
dalle fredde terre del nord Italia.
Detto frate si dedicava quotidianamente anche all’ufficio della
confessione, in modo da meglio conoscere le pecorelle del gregge locale
e raccogliere materiale per le sue avvincenti prediche serali.
Accadde un giorno che si accostò al confessionale una giovane signora
che ammise con vergogna e pentimento di avere molto peccato; il frate
chiese maggiori lumi alla donna, anche al fine di poter stabilire la
giusta penitenza e questa, tra renitenze e pudore, sussurrò di aver
“scivolato”.
Un qualsiasi religioso locale avrebbe subito compreso che quella
“scivolata” altro non era che l’eufemistica definizione di un
congiungimento carnale con persona diversa dal proprio legittimo
consorte, un essere scivolata nelle spire della lubrica lussuria
insomma; l’origine straniera del frate lo portò invece a credere che la
donna, dopo aver scivolato su di un marciapiede sconnesso avesse
peccato inveendo e bestemmiando, un peccato leggero, dopotutto, e così
leggera fu la penitenza.
L’adultera si vide così emendata con quattro “Pater” e due “Ave Gloria”
e non perse tempo a confidare alle sue comari che il prete longobardo
era molto meno severo dei suoi colleghi autoctoni nello stigmatizzare
“quel” peccato, con la logica conseguenza che tutte le amiche che
avevano la stessa macchia sulla coscienza fecero la fila davanti al
confessionale, raccontando ognuna le sue “scivolate”.
Il frate perseverò dell’errore e apprezzò molto l’adamantina fede del
popolo locale che non aveva, secondo lui, altro da farsi perdonare che
qualche infrazione al comandamento che impone di non nominare invano il
nome di Dio.
Il tempo passava veloce e venne Pasqua, celebrata con una funzione in
pompa magna alla presenza del popolo e delle autorità, col sindaco in
prima fila.
Al momento del sermone il frate guadagnò il pulpito e lodò la
rettitudine della comunità locale, conosciuta ed apprezzata tramite il
quotidiano esercizio della confessione; poi si rivolse direttamente al
sindaco e gli disse che una migliore manutenzione stradale avrebbe
sicuramente ridotto la frequenza delle cadute delle locali massaie,
diminuendo di conseguenza anche le loro imprecazioni.
<<Ci pensi, signor sindaco – disse il frate – ci pensi perché
quasi tutte hanno scivolato almeno una volte e, tra le altre, anche a
sua moglie è accaduto spesso questo incidente>>.
Alla affermazione seguì un attimo di silenzio, poi la chiesa esplose:
il sindaco diviso tra l’imbarazzo e la rabbia per la sua pubblica
condizione di marito tradito, tutti i coniugati che squadravano con
sospetto le mogli, tutte le mogli che abbassavano lo sguardo cercando
di mimetizzare la loro colpa vera o presunta, i non coniugati che si
godevano lo spettacolo sghignazzando a più non posso.
La funzione si interruppe bruscamente e da allora il capitolo
metropolitano, al fine di evitare il ripetersi di tali imbarazzanti
“misunderstanding”, non chiama più frati stranieri ad officiare le
funzioni religiose.
Stante quanto sopra, l’espressione ha quindi una valenza multipla; può
essere pronunciata dal reo che tenti di diminuire il peso della sua
colpa facendo passare quasi come inevitabile il suo errore con una
sorta di originale interpretazione del “mal comune mezzo gaudio”:
<<Giuà, pur’tu è fatt’filon’a scola ajier?>> - <<Ci’a
fa papà, pur’a mugghiere d’u sinnache ha scivulate>>
(<<Giovanni, anche tu ti sei arbitrariamente assentato da scuola
ieri?>> - <<Che vuoi farci, papà, anche la moglie del
sindaco è scivolata>>) così come può essere la disincantata
conclusione di chi riconosca la fallace anima umana anche in chi
dovrebbe teoricamente essere un esempio di rettitudine per gli altri:
<<Antò, é sentute ca honne arrestate u Presidente d’u Tribbunale
ca s’ pigghiava l’mazzette pe scarcerà l’mafiuse?>> -
<<Ci’a fa Catà, pur’a mugghiere d’u sinnache ha
scivulate.>> (<<Antonio, hai sentito che hanno arrestato il
Presidente del Tribunale che prendeva delle tangenti per favorire la
scarcerazione dei delinquenti? - <<Che vuoi farci Cataldo, anche
la moglie del sindaco è scivolata>>).
Ancora una volta assume evidenza l’animo del tarantino, la sua
accettazione consapevole anche se mai completamente rassegnata ad un
destino a cui non vale ribellarsi perché, tanto, pure a mugghiere d’u
sinnache ha scivulate.