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lunedì 13 maggio 2024
 
 
A LAVA’ A CAPE AU CIUCCIE SE PERDE ACQUA, TIEMPE E SAPONE PDF Stampa E-mail
L'ha scritt Administrator   
martedì 23 gennaio 2007

Ero intento a tradurre la Bhagavad-Gita cercando di rendere intatto il fascino epico del poema indiano, come già fecero lo Schlegel e Guglielmo di Humboldt, rispettando allo stesso tempo nel passaggio dall’indiano al tarantino le inflessibili regole ortogrammaticali che le sovranità culturali della nostra città ebbero a suo tempo la bontà di evidenziare, quando udii il brumoso Archibald discutere con un tono di voce di parecchi decibel superiore al sommesso bisbiglio che di solito caratterizza i suoi scambi verbali.

Per tema di essere distratto dalla delicatissima operazione filologica che stavo compiendo abbandonai il mio tavolo di lavoro e mi diressi verso l’epicentro della discussione dove trovai il mio asciutto maggiordomo che esprimeva il suo sdegnoso dissenso verso sua sorella Hermione, inferiore a lui in età e senso del pudore, per via dell’abbigliamento assai discinto che la stessa aveva indossato per recarsi a far compere in centro.

Notando la mia presenza l’onusto famiglio si scusò per la sua intemperanza, confidandomi che la rilassatezza di costumi della sorella era per lui un cruccio che da molti anni stigmatizzava, pur con risultato praticamente nullo.

Resomi conto della delusione del vecchio Archie lo consolai e, per chiarirgli quanto a volte anche le migliori azioni siano inefficaci, gli dissi: <<C’A FA’, ARCI, A LAVA’ A CAPE AU CIUCCIE SE PERDE ACQUA, TIEMPE E SAPONE>> (Cosa vuoi farci, Archibald, a lavare la testa all’asino si perde acqua, tempo e sapone); Archibald mi guardò perplesso e mi fece rispettosamente notare che non rimproverava certo alla sorella la scarsa pulizia personale e che, pur riconoscendogli una vaga somiglianza alla H.R.M. Anna di Inghilterra, non aveva mai pensato di paragonarla ad un equino.

Capii che ancora una volta dovevo illuminarlo sulle finezze della saggezza nostrana e così lo pregai di accompagnarmi nella mia stanza da lavoro dove conservavo un prezioso incunabolo utile alla bisogna, vergato di propria mano da Iacovone da Todi (Todi, 1236 circa – Assideramento di fronte al ristorante pizzeria “Salti Azzurri” nei pressi del canale navigabile di Taranto in attesa che si liberasse il tavolo prenotato per celebrare la convenscion invernale dei membri del convivio culturale “TarasNostrum”, 1306) poeta umbro famoso soprattutto per essere stato tra gli intellettuali firmatari del “Documento di lunghezza” (1297) nel quale si chiedeva il ritorno in commercio della bottiglia di Raffo a collo corto.

La poesia dello Iacovone da Todi, pur contraddistinta da una grande varietà di temi, è pervasa da una sorta di ebbrezza di amore per la Raffo e di odio per gli astemi, che egli vede iniqui e peccaminosi; in una chiosa del suo ”Trattato” ascetico egli infatti afferma testualmente: <<Est de nulla utilitade lo servire la Raffo at coloro che la spregiano sperando nello compimento dello miracolo della conversione, Raffo est destinata alle genti superiori per spirito et intelletto et vana est la speranza di innalzare lo volgo allo cospetto suo, como vano est lo laboro di colui che la testa lava dello proprio asino, perdendo così acqua et sapone et lo tempo suo>>.

I secoli trascorsi dal momento in cui quelle parole furono vergate nulla tolgono alla loro universale verità: alcune azioni, pur animate dalle migliori intenzioni si scontrano con le incontrovertibili leggi della Natura despota e matrigna e si risolvono in uno spreco di tempo e mezzi; il detto si presta alla perfezione per sottolineare tutta una serie di situazioni, dalle lezioni di educazioni civica impartite ai “panarjidde” di Paolo VI alla pletora di riunioni dei vari comitati per la riapertura per l’aeroporto di Grottaglie, dai tentativi di regolamentazione del traffico e del parcheggio delle auto in centro alla assunzione di vigilantes di scorta ai verificatori dei titoli di viaggio dei passeggeri dei bus di linea dell’AMAT.

 
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