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VO’ PAGGHIE PE CIENTE CAVADDE PDF Stampa E-mail
L'ha scritt Administrator   
martedì 27 marzo 2007
Ero completamente assorbito dalla osservazione della galassia di Andromeda col mio telescopio (che ogni tanto accidentalmente si spostava in corrispondenza delle finestre della mia procace e disinibita dirimpettaia) quando un leggero colpo di tosse rivelò la presenza di Archibald, il segaligno maggiordomo che, ottenuta la mia attenzione, mi mostrò la parcella del decoratore che aveva realizzato alcuni trompe-l’oeil nell’ala sud-sud-ovest della mia angusta dimora.

Pur apprezzando il risultato della sua estrinsecazione artistica, l’importo fatturato mi sembrò ingiustificatamente elevato e non potei trattenermi dall’esclamare: <<MOCC' A JIDDE, VO’ PAGGHIE PE CIENTE CAVADDE!>> (Accidenti a lui, vuole paglia per cento cavalli!).

Per l’ennesima volta l’espressione stranita del mio fedele domestico esprimeva una muta preghiera di chiarimenti, che accolsi avvalendomi della esemplare opera <<Megghie a me ca au farmaciste - negoziazione dello sconto commerciale e terrorismo psicologico>> dell’economista algerino Thumlhadà Thutthammè (Batha, 1886 - Epidemia di encefalopatia spuenzeleforme marina in San Vito, 1939) noto al pubblico per aver codificato le regole base del mercato del pesce di via Garibaldi.

Nella sua opera citata il Thumlhadà Thutthammè cita il detto in esame come espressione di contrarietà estrema a fronte di una richiesta evidentemente spropositata, e ne riconduce l’origine a diversi secoli addietro, quando il possesso di un cavallo era simbolo di notevole abbienza economica, sia per il costo dell’animale che per la dispendiosità delle quotidiane cure che il quadrupede necessitava.

Di tutta evidenza quindi che, se già il mantenimento di un cavallo era onere che pochissimi potevano affrontare, pensare di mantenerne cento era assolutamente impensabile, tanto elevato era il patrimonio che sarebbe necessitato.

La paglia per cento cavalli, il quotidiano nutrimento per dieci decine di equini serviva allora a dare la misura di una somma altrimenti incommensurabile (un po’ come il debito pubblico italiano), una cifra tanto elevata che una fredda sfilza di numeri non ne avrebbe data adeguata rappresentazione, un capitale la cui enormità poteva essere compresa solo paragonandola ad un bene materiale di cui si avesse quotidiana contezza.

 
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