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Oro verde... PDF Stampa E-mail
L'ha scritt carmela "Jatta acrest'"   
venerdì 14 novembre 2008

Sole, nuvole, acqua o  vento la campagna è sempre in fermento….
…no, non è una poesia anche se la rima c’è, casuale proprio perché causale, perché l’argomento che voglio trattare di poeti ne ha ispirati e non pochi, la nostra terra, che oltre ad ispirare gli artisti bucolici, è una vera e propria miniera a cielo aperto del metallo più nobile, l’oro…
Ho già omaggiato:
- l’ “oro rosso”  dei nostri vigneti…..
- l”oro giallo” dei nostri campi di grano
Ora tocca all’”oro verde”  dei nostri uliveti – alberi maestosi e secolari, dai tronchi scolpiti dal tempo, che sfidano il tempo e nei giorni senza sole, rischiarano con l’argento delle loro foglie.


Sull’indiscusso valore di questi alberi e dei loro frutti, una leggenda narra di
…un contadino che aveva ricevuto in eredità un uliveto. Gli toccava zappare, arare per mantenere pulito il terreno, e otteneva le olive che con la sua famiglia usava consumare durante i pasti frugali.
Lavorava e si dannava, maledicendo quella misera eredità.
Una giorno mentre lavorava nel campo, si riposò addormentandosi sotto un ulivo. Sognò una fata che sotto una macina schiacciava pepite d’oro. La fata gli chiese perché fosse così triste e disperato e dopo aver sentito le sue lamentele, si mise a ridere e gli disse:
Furìse, furìse tinìte l’oro e nonge ‘u canuscìte!
Così dicendo la fata svanì. Il contadino si svegliò e vide sull’albero le olive, che ormai mature al punto giusto trasudavano olio, e alla luce del sole sembravano pepite d’oro, le stesse che aveva visto sotto la macina della fata.
Si organizzò, raccolse le olive e le macinò come aveva visto fare alla fata e ottenne così l’olio in cui inzuppò il pane e si accorse che era buonissimo. Poi cominciò ad usarlo in ogni minestra, scoprendo che ogni cosa con l’olio acquistava sapore.
La notizia si sparse per tutto il paese e il contadino cominciò a vendere l’olio diventando così ricco in poco tempo.
La fata aveva avuto ragione, quegli alberi e quelle olive erano la sua miniera d’oro.

Questa leggenda spiega perché il potenziale di ricchezza delle famiglie si misurava in alberi d’ulivo e perché ogni albero d’ulivo è sacro e custodito come un bene prezioso.
Il vecchio detto: addò ‘ppènne ‘rrènne –  gli alberi da frutto posti a confine di solito estendono i loro rami nei terreni confinanti,  i proprietari possono raccoglierne tranquillamente i frutti che si affacciano sul loro campo.
Solo per un albero questa usanza non è valida, per l’olivo – in questo caso è il proprietario dell’albero che ha il diritto di entrare nel terreno confinante per raccogliere le olive.

Gli ulivi coprivano le nostre campagne e le coprirebbero ancora se la Serenissima non ne avessero scoraggiato la coltivazione, offrendo per un litro di olio una somma di molto inferiore a quella offerta per un litro di vino.
Fu così che i vigneti strapparono all’ulivo i terreni migliori.
Ma nonostante le limitazioni, la produzione di olio è stata sempre abbondante e l’olio era così pregiato che si esportava in tutto il mondo. Per questo, prodotti tipici furono per secoli le botti, prodotti artigianali di bottai e maestri d’ascia.
Le botti perchè l’olio imbarcato, al freddo si solidificava ed era difficile venderlo a litri. Fu così che  i bottai inventarono un particolare tipo di botte costruita con fasciame leggero e quindi dal costo molto basso; quella che oggi chiameremmo una “ botte a perdere”.
Quando la nave giungeva a destinazione si segava la botte e l’olio solidificato si vendeva a chili anziché a litri e il problema era risolto.

 

La vite, il grano, gli ulivi, da sempre presenti sul nostro territorio – principale fonte di alimentazione ma anche di reddito per le famiglie e per questo, entrati a far parte  della cultura popolare
In particolare l’olio, che richiedeva tanto lavoro e per questo prodotto di grande valore.
È nominato in proverbi e modi dire, ma è largamente usato anche nelle pratiche mediche popolari – come per curare ‘u rasciule http://www.tarantonostra.com/index.php?option=com_content&task=view&id=622&Itemid=1  

e nella scaramanzia – come per  l’affàscene http://www.tarantonostra.com/index.php?option=com_content&task=view&id=544&Itemid=1.

Ma l’olio era importante anche perché alimentava i lumi a olio che illuminavano le nostre case prima dell’avvento dell’energia elettrica –
lume no luce ci uègghie no arde –  senza olio il lume non fa luce, come a dire:  senza denari non si canta messa… modi dire che rimandano alla pratica delle regalie ma anche delle “bustarelle”...
Ad olio ardevano anche le lampade votive nelle chiese.
La fame di periodi di guerra e dopoguerra spingeva la gente a rubare l’olio dalle lampade votive … a tal proposito si raccontare un episodio che si tramanda di generazione in generazione perché ha dato origine al detto:
Citte tu, ca mammete conde…
…si racconta che i devoti della Parrocchia di San Giuseppe portavano in chiesa l’olio necessario per tenere accesi i lumini. Era un dono importante, dato che la maggior parte riusciva a malapena a procurarsi pane e latte…
Invece … a fine giornata il sacrestano della chiesa, passava a spegnere gli stoppini… iniziava dalla statua  della Madonna col Bambino e diceva:
“Madonna mejie ci tu no me dice niente jie me pigghie nu picche de uègghie”
Avendo come risposta il silenzio della statua che lui interpretava come consenso, raccoglieva l’olio dei lumini, ringraziava la Madonna e andava a  condire il suo piatto di  minestra.
Il parroco si accorse dell’ammanco e una sera si nascose in chiesa per capire cosa succedesse, così sentì il sacrestano che davanti alla statua della Madonna come tutte le sere diceva: “Madonna mejie ci tu no me dice niente jie me pigghie nu picche de uègghie”
Il parroco pronto disse:
“No! Non voglio!”
Il sacrestano rimase sconcertato, ma poi avendo riconosciuto una voce maschile, si rivolse al Bambinello dicendo:
“Citte Tu ca Mammete  conde!”

Frase che poi è entrata nell’uso comune per apostrofare chi parla senza consenso o cognizione.

In questo periodo nei campi tutto ruota intorno agli ulivi, arrampicati sui rami più alti o inginocchiati sulle loro radici, grandi, piccoli, giovani o anziani,  raccolgono  le olive.
Il processo di trasformazione delle olive in olio è lungo a laborioso.  Inizia con la raccolta:
De  Santa Riparata  ogni alìa è ogliata – L’8 ottobre le olive sono già mature al punto giusto per essere raccolte.
Prima dell’avvento delle macchine la raccolta delle olive vedeva impegnati uomini, donne, giovani, anziani e bambini…intere famiglie intorno a questi alberi, dall’alba al tramonto.
Si iniziava col fare “l’era all’arvule”, che non è uno scioglilingua, ma la pulitura di tutta la zona sotto gli alberi, per una circonferenza che contenesse la chioma, lasciando un margine, un ciglio, che doveva contenere le olive “ca scutulavene” (che cadevano quando si scuotevano i rami). Naturalmente durante la battitura le olive cadevano anche fuori dall’era…. Non importava, tanto si dovevano raccogliere tutte le fitte (quelle che cadevano nell’aia) e “le cigghiare” (quelle che cadevano oltre il ciglio).
Un lavoro duro, fatto di mani e piedi infreddoliti e schiene spezzate…. Ma fatto con dedizione e allegria, intonando i canti a “botta e risposta”, canti che parlavano di amori nati nelle campagne tra femmene e uemmene, ma anche di sfruttamento e di ‘ntere (le donne che guidavano le squadre di femmene che lavoravano nei campi”)

Alije, alije,
come s’accogghiene chiste alije...
S’accogghiene a vvune a vvune
Pè fà despijette alle padrune.
S’accogghiene a ddòje a trète
Pè fa dispijette a ‘ttèje.


(da 'U Breviarie d'a nonne di Claudio de Cuia)

Man mano che si raccoglievano le olive venivano portate nei magazzini, dove venivano messe per terra, “sparpagghiate” , perché  dovevano arieggiare per evitare la formazione di muffe.
Poi venivano pulite dalle foglie e messe nei sacchi per essere portate a “’u trappite” (al frantoio).
Un lavoro continuo, a catena di montaggio, dove ognuno aveva il suo compito.
E fin’a mò no è niente!...

 

Gli addetti ai frantoi per mesi vivevano segregati. Per questo la condizione dei frantoiani era associata a quella dei marinai, perché come loro mancava mesi e mesi da casa. Il capo del frantoio al pari del capitano di una nave aveva potere assoluto sulla comunità, era chiamato nachirio, che in greco indica chi “ha in mano la nave” - il capitano, il nostromo.
I frantoi migliori erano scavati nel tufo. Erano realizzati sottoterra in quanto la facilità di scavo rendeva più conveniente il lavoro, al contrario della sua costruzione in superficie; ma anche perché la temperatura nei trappiti doveva essere stabile e calda per favorire il flusso dell'olio nel momento in cui le olive, dopo essere state macinate, dovevano essere sottoposte alla torchiatura e allo scarto della sentina. Anche per questo motivo si preferiva orientare l'ingresso verso sud, per ripararsi dalla tramontana.
I locali erano riscaldati dai lumi che per illuminare ardevano giorno e  notte,  dalla fermentazione e dal fiato degli animali, e se questo non bastava venivano portati anche “le frascère cu ‘a cinìse” ( bracieri con la cenere calda) .
La stanza principale era caratterizzati da grandi torchi di legno e da vasche di molitura ricavate nella pietra viva.  Le grandi pietre erano azionate da nu’ ciucciariedde che doveva girare continuamente per azionare la macina.
Il lavoro era a ciclo continuo come sulle grandi barche da pesca: notte e giorno da novembre a febbraio. Il nachirio dirigeva tutto il lavoro dei trappitari, i manovali da lui guidati erano almeno cinque, tra cui un ragazzino che non superava i 15 anni, il quale svolgeva le mansioni minori: fare la spesa, portare da bere, cucinare, pulire e dar da mangiare agli animali.
Era necessario produrre un buon olio affinché si potesse piazzare bene sul mercato e il nachirio, con grande maestria, organizzava il lavoro di tutti servendosi della sua esperienza. Dopo aver fornito le direttive a ciascuno dei dipendenti, non se ne stava con le mani in mano, al contrario lavorava con lena e, allo stesso tempo, vigilava sull'operato degli altri.  La sua mansione principale era quella di "tagliare" l'olio. Egli eseguiva personalmente tutta l'operazione che consisteva nel purificare l'olio, il quale, essendo meno pesante dell'acqua, saliva a galla dopo essere stato filtrato.
U’ trappìte era  tutto per chi vi lavorava. Questi uomini si recavano nelle loro case solo per le feste  dell'Immacolata, di  Natale e per Capodanno.
Nei trappiti il momento di pausa e di ristoro era la cena, a fine giornata, ‘u nachirio prendeva dell’olio,  e poi benediceva con un segno di croce il cibo: legumi alla pignata, cotti al fuoco delle zolle di sansa, e verdura lessa condita con abbondante olio – poi c’era  ‘A zuppa d’u trappitare” che prima ancora che una pietanza era un documento della nostra storia e dei suoi anonimi protagonisti. Era una zuppa di fave secche lessate a fuoco lento e broccoli lessati con foglie di alloro, pomodori, prezzemolo e sale, il tutto servito su fette di pane abbrustolito passate con l’aglio e naturalmente intrise nell’olio.
Quanta storia e quante storie seppellite in questi trappiti bagnati dall’olio e dal sudore di tutti questi lavoratori dagli occhi stanchi ma dal cuore palpitante.
I vecchi frantoi non esistono più, sono diventati: musei della civiltà contadina, ristoranti, ma anche luoghi per incontri socio-culturali…
…E quelli rimasti abbandonati si crede che siano il luogo di ritrovo delle streghe…

In ogni modo tra poco avremo l’olio novello, dal sapore delicato e dal profumo intenso pronto per indorare le nostre pettole.

 

jatta acrest

 

Ultimo aggiornamento ( mercoledì 19 novembre 2008 )
 
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