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martedì 16 aprile 2024
 
 
CATARE CU CATARE NO SSE’ TENGENE PDF Stampa E-mail
L'ha scritt carlo "U Sinnache"   
lunedì 02 febbraio 2009

 Stavo cercando di applicare alla mia pratica di giocatore di livoria dilettante i principi di continuo automiglioramento personale descritti nel “Gorin no sho” da Miyamoto Musashi, famoso spadaccino giapponese del 1600, quando il sempre tempestivo Archibald sottopose alla mia attenzione una rassegna della stampa estera che riportava i commenti dei principali analisti politici relativi alla compagine governativa che con i suoi originali provvedimenti stava attirando distinguendosi nel panorama politico internazionale.

Pur nella sua estrema discrezione unita ad un incontrovertibile disinteresse per le minuzie quotidiane, il vecchio Archie non potè non evidenziare la scelta dell’Onorevole Bossi al ministero delle Riforme per il Federalismo, chiedendomi se la cosa potesse in qualche modo influenzare negativamente l’iter del governo appena insediato.



Commentai che avendo nominato il "Senatur” alle Riforme, tanto valeva nominare il virus “Ebola” alla Sanità e conclusi affermando amaramente che comunque “CATARE CU CATARE NO SSE’ TENGENE”.

A questa chiosa finale il mio allampanato maggiordomo rimase alquanto perplesso e si risolse, dopo qualche secondo di incertezza, a chiedermi come mai le appartenenti ad una setta eretica che praticano un rigido ascetismo non potessero aiutarsi a vicenda nel modificare il colore della loro capigliatura.

Ancora una volta ero stato l’involontario promotore di un qui pro quo ed ancora una volta mi risolsi a chiarire l’arcano al mio ignaro domestico, prelevando dalla mia modesta biblioteca il saggio “Candida e candidina, l’ipoclorito sodico come cura delle infezioni genitali femminili” redatto con maniacale cura dal ginecologo russo Dimitri Ivanovic Muduceloff (Minsk, 1843 - Idrofobia contratta a seguito di morso di piccione in transito presso “Onda blu lido”, 1896).

Il Muduceloff fornisce dell’espressione la traduzione letterale: “Caldaia con caldaia non si tingono” e la fa risalire alle pratiche della cucina popolare dei tempi andati.

E’ infatti noto che il pasto principale dei nostri avi era solitamente una zuppa o una minestra cucinata in un capiente pentolone (“catara”, dall’italiano “caldaia”) sospeso sul focolare che svolgeva contemporaneamente le funzioni di riscaldamento ambientale e cucina comune.

L’impiego di combustibile ligneo o fossile causava una notevole produzione di fuliggine che in breve tempo costituiva sulle superfici esterne del pentolame una crosta ruvida che lasciava una evidente traccia di nerofumo su qualsiasi cosa avesse la sventura di venirne a contatto.


La disponibilità di abbigliamento era a quei tempi assai ridotta, e questo fatto, unito alla faticosa laboriosità del bucato ed alla pertinace resistenza di quel tipo di macchie che univano l’untuosità del desinare alla tenacità fuliggine, rendevano assai temibile il verificarsi di questo evento da parte delle massaie.

Dal pratico quotidiano è stata tratta l’ispirazione per l’espressione in esame; come una pentola unta ed affumicata non avrà nulla da temere nel venire a contatto con un altro calderone nelle sue stesse condizioni, così chi abbia già una più o meno evidente predisposizione a determinati biasimabili atteggiamenti non potrà certo essere ulteriormente traviato da un sodale dagli analoghi comportamenti.


Il motto in esame si presta quindi a salace commento tanto nei confronti di un genitore che si preoccupi delle discutibili frequentazioni del suo irrequieto figliolo quanto verso un marito che crede che l’abuso di rossetto, minigonne e calze a rete da parte della procace consorte sia da attribuire “in toto” al discinto esempio fornito dalle sue compagne di burraco durante le interminabili partite notturne che le sottraggono all’assolvimento degli obblighi coniugali.

 
< Vid quidd d'apprim.   Vid 'nnotre. >
 
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