Ero nella sala dei trofei ubicata al piano nobile dell’ala sud-sud-est del mio modesto abituro per cercare degna collocazione ad un chiavacuore di squisita quanto originale fattura, rappresentante una Raffo trafitta da una freccia realizzata in princisbecco da un mio mezzadro che volle donarmela a mo’ di ex-voto in segno di gratitudine per averlo salvato da una cartella esattoriale assai esosa. Mi aggiravo quindi nella stanza con l’oggetto in mano cercando la sistemazione più opportuna quando venni raggiunto dall’ineffabile Archibald, il britanno famiglio le cui qualità non saranno mai troppo lodate, che richiedeva la mia attenzione al fine di stabilire se il frugale desinare di diciotto portate più varie entrèe che avevo richiesto per il pranzo dovesse essere accompagnato dal sottofondo musicale di “Tutu” di Miles Davis o dal “Greatest Hits” di Mimmo Carrino.
La mia attenzione era però totalmente assorbita dallo sforzo estetico richiesto dalla ricerca della giusta collocazione del trofeo raffico e pur conscio della importanza della scelta musicale, ritenevo che la vexata quaestio si sarebbe potuta dirimere all’atto del desinare, tanto che risposi al mio attendente con un frettoloso “Po’ vedime!” (Poi vediamo!). Come è facilmente intuibile, tra le innumerevoli qualità di Archie non è compresa la capacità di interpretazione delle sfumature filosofiche del dialetto tarantino, tanto che non gli era chiaro come un problema di natura squisitamente uditiva potesse essere risolto con l’aiuto dell’organo della vista. La sua palpabile perplessità lo bloccava immobile sulla soglia ed io, avendo finalmente trovato la sistemazione più opportuna a far risaltare il lacoontico pathos espresso dalla bottiglia dardeggiata, mi risolsi ancora una volta a chiarire il significato della mia espressione. Consultai per la bisogna il saggio illustrato “Amma vedè, disse u cecate! – l’indeterminazione decisionale nell’era del definitismo materialista come concezione eudemonica della vita” redatto con impareggiabile chiarezza dall’erudito yemenita Mhafafà Nuthuff Ausanbey (Ta’izz, 1816 – Attentato suicida compiuto con fialette puzzolenti all’interno di un autobus di linea che lo vide come unica vittima grazie alla mitridatizzazione dei passeggeri oramai adusi agli effluvi di ascelle grondanti di anziane matrone frammisto al clangore olfattivo di prodotti ittici di dubbia freschezza quotidianamente movimentati sui mezzi dell’AMAT, 1849) che elaborò la sua teoria nel corso della interminabile attesa di poter godere della consumazione gratuita compresa nel prezzo di ingresso alla discoteca “Deossiribonucleico – l’acido è alla base della vita”, un locale da ballo molto in voga tra i ricercatori genetici di tendenza che cercavano di isolare il gene caratteristico della cozza pelosa tarantina al fine di risolvere definitivamente i problemi di alopecia che affliggono tanta parte del genere umano prima che questo venisse chiuso dalle forze dell’ordine a causa dello spaccio illegale di androsterone di sintesi. Il Mhafafà Nuthuff Ausanbey evidenzia nella sua opera come la modalità di affrontare i problemi da parte del popolo ionico possa avere sostanzialmente un atteggiamento transitivo o, viceversa, intransitivo. Nel primo caso, evidenziato appunto dell’espressione “po’ vedime!”, l’attore porta all’esterno il suo dramma esistenziale, cerca al di fuori del suo Super-Io le indicazioni necessarie e sufficienti a risolvere il suo male di vivere, esplora il mondo sensibile con l’organo di senso per antonomasia al fine di ottenere gli elementi che lo portino a compiere la sua parabola umana. Nella concezione intransitiva, fondata sul motto “po’ se penza” l’attenzione del protagonista è invece volta su se stesso, è nell’astratto mondo logico-razionale che crede sia celata la soluzione dei suoi drammi quotidiani, il noumeno che egli cerca lo crede nascosto nella latebra del suo intelletto ed è lì che ritiene di doverlo stanare, sordo e solipsisticamente insensibile a tutto ciò che lo circonda. Nell’uno e nell’altro caso il tarantino ripudia la madre ellenica ed applica la sua disciplina in un tempo che è affatto aoristo, che rifugge dall’hic et nunc per spostare l’azione e la soluzione della ricerca in un futuro indeterminato, vicino ma zeteticamente irraggiungibile, di cui se ne percepiscono i contorni sfumati ma giammai la compiuta fisionomia. Ecco allora che si disgelano all’attento e consapevole osservatore le vere origini di quelli che ad un superficiale sguardo sono vizi e difetti delle nostre genti, quello che sembra il flaccido sfuggire ad atavici problemi, quello che appare un imbelle atteggiamento di fronte al disfacimento del mondo circostante non è una fuga dalla realtà, (che anzi viene esaminata e commentata dal barbiere come al bar, in piazza come a casa), non è un declinare le proprie responsabilità ma è al contrario un urlo di speranza verso il futuro, verso le nuove genti, verso i nuovi virgulti che porteranno linfa vitale in tronchi provati dagli anni. Per nulla nichilista è l’apparente lassismo del tarantino, egli sa fare, e lo dimostrano le concioni che quotidianamente offre toccando ogni ramo dello scibile umano, dalla formazione ideale della squadra del Taranto al percorso più opportuno della tangenziale di Massafra, dal metodo di apertura di un qualsiasi bivalve alla temperatura di conservazione della Raffo in frigo, ma preferisce profondersi di modestia e lasciare ad altri l’onore e l’onere dell’azione, ben conscio del proprio essere uno tra tanti, utile magari ma non indispensabile, assolutamente non tanto arrogante da credere di avere il diritto di fare qualcosa togliendo così agli altri questo piacere. Un tarantino non fa, non farà, non ha fatto mai alcunché; fin dai tempi della scuola elementare si imbibe di questo modo d’essere, un vero tarantino non sarà mai tanto egoista da accettare il merito di aver rotto un vetro con un preciso calcio ad un pallone, non si glorificherà ammettendo di essersi bevuto da solo tutte le birre in frigo, non si porrà da solo sul capo l’aureola dovuta a chi ha lasciato nel portone condominiale salaci distici che alludono alla piccola virtù della procace signora del primo piano. Il tarantino è ben conscio della profonda verità del “panta rei”, ha fatto tesoro degli ammonimenti dell’Ecclesiaste e così sacrifica e mortifica il proprio ego accettando di essere una goccia del mare, un orma che lungi dall’essere impressa per sempre sulla sabbia lunare, è destinata dopo qualche secondo ad essere cancellata dall’incessante moto ondoso dalla battigia di Montedarena, presto sostituita da altre, tutte unite dallo stesso destino di oblio della memoria. |