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Come tutto ebbe inizio PDF Stampa E-mail
L'ha scritt carlo "U Sinnache"   
martedì 19 gennaio 2010

 Qualche giorno fa ho ricevuto l'invito di un collega marzialista, che chiedeva i raccontare come fosse cominciata la nostra passione per le arti marziali.
Ho buttato giù due righe e pensando che anche qualche altro mio coetaneo possa ritrovarsi nelle mie esperienze, le condivido con voi.

Non che abbia granché di particolare da raccontare, sia chiaro, e questa “excusatio non petita” valga da opportuna avvertenza ai visitatori del Purtuso, che potranno serenamente evitare di proseguire nella lettura con la tranquilla consapevolezza di non perdere granché. A coloro che hanno davvero niente di meglio da fare, ecco la mia breve storia.

Sono nato ai Tamburi ma quando avevo circa cinque anni la mia famiglia si stabilì a Paolo VI, in un quartiere periferico, che era sostanzialmente un insediamento urbano che – pur progettato con le migliori intenzioni – era in realtà una via di mezzo tra un dormitorio ed un ghetto. Per me, e per i tanti altri bambini che vi abitavano questo ammasso di casermoni aveva però una serie di vantaggi peculiari: molto verde pubblico, assenza totale di traffico automobilistico, macchia mediterranea selvatica tutto intorno al perimetro del quartiere. Capirete bene che ce n’era d’avanzo per scatenare la fantasia e l’energia di bambini ed adolescenti, che infatti rimanevano a casa poco e niente, spendendo tutto il loro (molto) tempo libero ad arrampicarsi sugli alberi, esplorare masserie abbandonate, ammaestrare cani randagi, costruire rudimentali strumenti di offesa e difesa (fionde, bastoni, fucili a molla, scudi) e scatenare lotte infinite con bande rivali di caseggiati adiacenti, come i romanzeschi coetanei della via Paal.

Che io ricordi, avevo sempre voluto praticare quelle che poi scoprii chiamarsi “arti marziali”; il mio primo amore – non so se per il cartone animato della Disney di “Robin Hood” o per la androgina bellezza di Loretta Goggi ne “La freccia nera” - fu il tiro con l’arco. Fu un amore mai veramente consumato, se non attraverso manufatti più o meno efficaci, che vedevano le frecce realizzate di volta in volta con rami e canne raccolte e lavorate a pochi passe da casa, o con le stecche metalliche di ombrelli parapioggia ed ombrelloni da mare. Il risultato era abbastanza rozzo ma tanto terribilmente efficace quanto frequentemente usato nelle disfide di quartiere sopra citate, e ancora oggi mi chiedo quale miracolo abbia fatto si che nessuno di noi ci abbia perso un occhio.

L’arco era efficace ed aveva una certa aura mistica ma era, nelle nostre azioni di guerriglia, un po’ ingombrante ed approvvigionabile di frecce con una certa difficoltà e così, per aspirare al ruolo di “Guglielmo Tell de’ noantri” ed avere un qualche successo sul campo, fu giocoforza ripiegare su armi da lancio più maneggevoli, dal semplice sasso alla fionda a forcella. Quest’ultima la si ricavava da rami di olivo forcuti lavorati e induriti al fuoco, dotati poi di elastici ricavati da camere d’aria di bicicletta deboli e traditrici (la soldataglia) o da con ben più performanti molle da armeria (gli sniper). Precedendo nel tempo i moderni praticanti di soft-air, le nostre fionde erano quasi sempre caricate con micidiali olive nere e mature, disponibili in quantità grazie ai numerosi alberi intorno casa. L’oliva aveva la duplice caratteristica di avere un nocciolo duro che faceva male quando arrivava, ma soprattutto una polpa che macchiava indelebilmente dove toccava, testimoniando senza tema di smentita l’avvenuto impatto e condannando la vittima alla percussiva percussione della madre una volta che la genitrice avesse constatato il danno subito dall’indumento.

Risalgono a quegli anni una serie di “imprinting” di cui fui allora inconsapevole ma che scoprii anni dopo essere indissolubile parte di me. Prima di tutto una sia pure vaga forma di senso dell’onore. C’erano regole non scritte ma tacitamente condivise da tutti, gli scontri erano sempre in campo aperto e gli attacchi a tradimento erano impensabili. Ciascuno si assumeva (orgogliosamente? coraggiosamente? stupidamente?) la responsabilità delle proprie azioni, fosse la rottura del vetro di una finestra o l’aver causato lividi o ecchimosi. Il sottoscritto ha ancora una cicatrice sul labbro, causata da un coltello da cucina a lama seghettata brandito da un avversario un po’ bullo a cui avevo rotto la testa poco prima con una pietra ben lanciata, che avevo atteso a piè fermo sotto casa mia nonostante avessi avuto tutto il tempo di eclissarmi mentre lui andava a medicarsi.

Un’altra caratteristica che conservo da allora è il cameratismo solidale, alimentato da film, romanzi e fumetti: “tutti per uno ed uno per tutti” era la regola, e anche se avessi avuto il peggiore screzio con un membro della mia banda, sarei comunque accorso in suo aiuto quando fosse stato aggredito dai membri di una banda avversaria.
Come detto, vivevamo circondati da cespugli e boscaglia, molto lontani da altri consessi civili e dai relativi esercizi commerciali, il che rendeva difficile l’acquisto di beni di consumo specifici ma rendeva disponibili materie prime e semilavorati in grande quantità, specialmente nei tanti anni in cui intorno al nucleo dei palazzi dove abitavamo si continuava a costruire.
Imparammo a ricavare panetti e pallini di piombo fondendo i rimasugli dei tubi di scarico idrico, cerbottane dai tubi di plastica rigida per gli impianti elettrici, fili di rame dai cavi elettrici e così via. Ogni oggetto poteva diventare arma e con il tempo acquisimmo la capacità di scoprire con un colpo d’occhio le qualità nascoste della maggior parte di quello che ci capitava sottomano.

In Giappone praticavano lo “yabusame”, il tiro con l’arco a cavallo; noi eravamo esperti del tiro con la fionda dalla bicicletta, nelle due varianti “individuale”, guidando il velocipede con gambe e bacino senza le mani sul manubrio per impugnare la fionda, ed “a coppia”, con il pedalatore in piedi ed il tiratore seduto sul sellino.
Certo, il desiderio di fare qualcosa di più organizzato tornava frequente, ma all’epoca non erano disponibili dojo, palestre, sale d’armi o qualsivoglia organizzazione simile, e quindi ogni volta toccava prima accontentarsi poi, passando gli anni, rinunciare.
La svolta avvenne dopo aver virato la boa dei trent’anni, dopo matrimonio, separazione, cambio di domicilio e altre vicissitudini. Cominciai a praticare sport da combattimento negli anni ’90, frequentando corsi di kick-boxing ed altre discipline da ring, non foss’altro che per placare il desiderio di prendere a pugni l’avvocato che curava la causa di separazione, ma questa è un'altra storia...

 
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